I discepoli dei TRHÄ

Il black metal è come il tarassaco: basta che un solo seme portato dal vento tocchi terra per generare nuove piantine. Tra l’altro, raccolto a primavera il tarassaco (in Piemonte lo chiamiamo girasole, ma non ha nulla a che vedere con la pianta da seme che tutti conoscono) è squisito nell’insalata ed è un portentoso depurativo del fegato. Pensateci, se siete consapevoli di eccedere un po’ troppo con alcol e fritture.

Terminata l’introduzione salutistica/documentaristica, addentriamoci nel mondo della musica: da non molto ho ricapitolato la carriera dei Trhä sostenendo che hanno inventato un nuovo modo di concepire il black metal e che questo nuovo modo ha immancabilmente fatto proseliti. Proprio come i semi del tarassaco che dove cadono germinano, la musica dell’innovatore messicano è volata in giro, è atterrata ed ha originato seguaci. In questo articoletto ne segnalo quattro, sta poi alla vostra curiosità ed interesse trovarne altri che di sicuro non mancano.

A volte la grimness si nasconde dove meno ce lo si aspetta

Protagonisti anche di uno split con i loro mentori Trhä, in India è sbocciato il fiore tossico dei SËHT, one man band che al suo genitore assomiglia in modo impressionante: sia per le partiture strane e schizzate  sia per l’utilizzo di tastiere eteree, quasi cosmiche, non predominanti ma sempre in sottofondo. Si rintracciano parti di violoncello, chitarre non distorte con vaghe influenze etniche, distorsioni black discretamente burzumiane, eccetera. Questo, oltre a una voce in screaming ai limiti del comprensibile ed a una batteria molto compressa parimenti celata nei meandri della composizione, lo troverete nell’EP d’esordio Kenvassã ejarmä enva valarãã, traccia da oltre venti minuti, cangiante, mutevole e mai monotona. Ad oggi è l’unico brano della loro scarna discografia oltre a quello dello split, attitudine contrastante a quella di tanti altri che oramai fanno uscire un disco o più al mese. Produzione minimale e scelta di suoni retrò come le vecchie demotape anni ’90: statene alla larga se non gradite queste sonorità impastate o se per voi già Anthems to the Welkins at Dusk ha dei suoni appena passabili. Altrimenti buttatevici a capofitto, ché non perderete il vostro tempo. Si trova ovviamente in digitale, in versione fisica esistono copie in cassetta per Canti Eretici e in CD per la rispettabilissima etichetta portoghese Signal Rex.

Di provenienza ignota sono i VAMPYROTEUTHIS INFERNALIS, il cui debutto omonimo è uscito sul finire dell’anno scorso in un’edizione limitatissima e autoprodotta in cassetta. Quest’anno ci ha pensato la Avantgarde Music a far uscire dall’anonimato questo gioiellino, ristampandolo in CD e vinile. Raw black metal molto melodico, molto nervoso, molto violento, la personificazione della frenesia, una sorta di Cradle of Filth dei vecchissimi tempi moltiplicati per dieci sia in velocità che in grezzume. Il disco consta di due pezzi, entrambi di 22 minuti e mezzo circa, e mette un’energia addosso che porta quasi allo sfinimento. Anche in questo caso la produzione e la scelta dei suoni è piuttosto caotica (io mi baso sulla versione primigenia in cassetta, non so se la ristampa sia stata remixata o rimasterizzata), con la voce abbaiata in screaming tenuta in sottofondo e anche la batteria non eccessivamente in evidenza, specialmente nelle parti veloci, che sono quelle predominanti. Gran parte della scena se la prendono le chitarre e la tastiera, spesso ad effetto organo. I continui cambi di tempo sono studiati alla perfezione; dai Trhä mutuano di sicuro il concetto di composizione come fosse una sinfonia o una parte di essa, con stacchi apparentemente poco coerenti col brano ma che, riascoltati più volte, ci si accorge essere parte fondamentale della struttura. L’opera è geniale nell’intimo, da non perdere.

Notevolissimo anche l’esordio dell’ormai formato usuale one-man band Ὁ ΜΈƔΑΣ, pur essa di origine ignota. Κήρυξ πῦρ viene patrocinato dalla sempre più attiva etichetta nostrana Canti eretici, che sta scovando chicche mica da ridere in giro per l’underground. Pare essere un progetto imperniato sulla glorificazione di Alessandro Magno, tanto per curiosità. Chissà se esiste un aldilà e se codesto storico condottiero è consapevole di essere stato citato da una miriade di musicisti metallari… me l’immagino in giro con uno spadone e la maglietta di Somewhere in Time. E oggi con in cuffia nel walkman il raw black metal frenetico e stranissimo degli Ὁ Μέɣας, a tratti influenzato dal folk greco e con uno strumento a percussione in sottofondo che pare essere uno xilofono, il quale tra l’altro ricopre un ruolo nient’affatto marginale. I suoni sono e rimangono lo-fi, tutti i brani sono impostati su trame velocissime, cattivissime e coinvolgenti nel vero significato del termine. Nel loro caso la voce è più comprensibile e meno impastata, il riffing è insospettabilmente melodico e sempre comprensibile nonostante l’estrema violenza, il basso in forte evidenza rende l’ascolto pieno e colorito, la batteria ha il suo giusto spazio e la tastiera, ove presente, rifinisce il tutto. Per me questo disco è uno spettacolo: cinque brani, 32 minuti di musica che è anche raw black metal ma a tratti sfugge dalla classificazione… mi riferisco al sirtaki che affiora nella parte finale di θύελλα (lo ritroveremo ancora nel corso del disco, per meraviglia) e mi chiedo come mai i Rotting Christ non ci abbiano pensato prima.

Infine i francesi OLATOM AMESPÏRÏA, gruppo di recente formazione che nel 2022 ha pubblicato due demo e un singolo, tutti ristampati quest’anno in un unico CD dal titolo Ephemeral Gathering from Beyond, autoprodotto, limitato a 150 copie e contenente una cover degli schizo-progster Devo (The Gate of Steel) come bonus track. Anche nella loro musica l’influenza dei Trhä è palese e pesante. La chitarra ritmica e la batteria hanno gli stessi identici suoni, apprezzabile lo sdoppiamento della chitarra con una delle due tracce tenuta su note altissime, il songwriting è variegato e fantasioso e divaga spesso dal black metal puro e semplice andando a visitare luoghi fantastici dove albergano speed metal, thrash, hardcore punk, ambient e quant’altro. Piacevole l’utilizzo mai troppo esasperato di tastiere molto d’effetto, il cantante strilla come se lo stessero scuoiando ma come oramai prassi è tenuto piuttosto indietro nel mixaggio. I riff si rincorrono frenetici, i pezzi sono frantumati in mille briciole rimanendo comunque sempre coerenti e coesi. Degli otto brani sono sei quelli originali (oltre alla cover dei Devo hanno suonato anche Lutina dei Nuit Noire), tutti di lunghezza medioalta (si va da un minimo di 6 minuti ad un massimo di oltre 18), tutti molto interessanti e assai consigliati.

C’è già di che divertirsi, enjoy! (Griffar)

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