La finestra sul porcile: Custodes Bestiae

locandina_custodes_bestiaeLegare la morte del cinema di genere italiano, e più nello specifico dell’horror italiano, al collasso di quel sistema produttivo exploitation, fatto di sale di provincia ed effetti speciali alla pajata, surclassato nei primi anni ’80 dall’avvento delle tivù private, è un discorso che mi convince sempre meno. Ciò può essere vero per le produzioni più povere e caserecce, per i vari Andrea Bianchi e Bruno Mattei, il cui destino era comunque soccombere per conclamata mediocrità e avvenuta obsolescenza, ma non credo spieghi la scomparsa pressoché totale dei prodotti medi. Il bistrattato decennio dei paninari e del synth pop fu, nella penisola, anche quello dello straordinario successo di Dylan Dog, con i suoi Horror Fest gremiti, dell’affermazione di nuove promesse poi persesi per strada (perché, banalmente, la televisione pagava di più), come Michele Soavi. Il cinema dell’orrore è come l’heavy metal: può contare su un pubblico fedele, devoto e informatissimo. Per questo non morirà mai. Molto banalmente, la vera questione, in Italia come altrove, è girare film che poi la gente abbia voglia di andare a vedere. Tutto qua. Il problema, a mio parere, è che si è guardato per troppo tempo dalla parte sbagliata, cioè all’indietro. Prendete Tulpa. È un simpatico cazzeggio per nostalgici, una strizzatina d’occhio passatista, ma non è un film serio. Pretendere che una rinascita dell’horror tricolore possa basarsi sul citazionismo cafone è come identificare il futuro del metal estremo nei gruppi sudamericani trucidi alla Anal Vomit (non fraintendetemi, a me divertono un sacco gli Anal Vomit). Bava, Argento, lo stesso Fulci, erano autori con una poetica troppo personale per potere essere riprodotta ad libitum trenta o quarant’anni dopo. La strada da seguire l’aveva invece mostrata un autore al quale sono bastati pochissimi film per meritarsi un posto nella storia tra i più grandi registi horror italiani: Pupi Avati. È tra le necropoli di Zeder, tra gli infiniti misteri nascosti da un Paese carico di storia come il nostro che bisogna scavare; è dagli orrori della provincia profonda evocati da La casa dalle finestre che ridono che si deve attingere; è il brivido che abbiamo provato tutti da ragazzini nel passare, a tarda sera, a fianco di una vecchia casa di campagna abbandonata che va rievocato dai connazionali mossi dal nobilissimo intento di imbracciare una macchina da presa per provare a metterci paura. E per fortuna qualcuno ha iniziato a capirlo, come l’udinese Lorenzo Bianchini.

custodes_bestiae44Uscito nel 2004 e distribuito in dvd due anni dopo, Custodes Bestiae, secondo lungometraggio del regista friulano dopo il già promettente Radice quadrata di tre, prende le mosse dal mercato antiquario di Aquileia, dove il professor Giorgio Del Colle reperisce per caso delle vecchie foto che, ricollegate a un affresco del quale l’anziano docente sta curando il restauro, riportano alla luce un’agghiacciante vicenda risalente ai tempi dell’Inquisizione. Del Colle, scosso dalla scoperta, contatta un giovane reporter (vagamente somigliante al nostro Giuliano D’Amico) perché lo aiuti a squarciare il velo sui tremendi segreti celati da un paesino di montagna del circondario. Dopodiché scompare nel nulla, spingendo il giornalista a proseguire da solo le indagini. Mal gliene incoglierà, come sempre accade quando si contravviene al brocardo Quieta non movere evocato dal professor Montague Rhodes James in uno dei suoi indimenticabili racconti di fantasmi.

I difetti della pellicola sono tutti dovuti ai fondi irrisori (Custodes Bestiae è un’autoproduzione realizzata con un piccolo sostegno della Provincia di Udine), che costringe Bianchini a girare in digitale, con una fotografia piatta e televisiva, laddove gli attori svolgono un lavoro apprezzabile, se si considera che trattasi nella maggior parte dei casi di non professionisti, ma non sempre convincente (Massimiliano Pividore, vecchio sodale del regista, è un po’ legnoso nel ruolo del giornalista, mentre Giorgio Merlino/ Del Colle non se la cava affatto male). Da un altro punto di vista, i limiti di budget finiscono però per remare a favore di un film giocato sul non visto, lasciando all’immaginazione dello spettatore il compito di completare quanto di terrificante viene suggerito da una regia dalla tecnica ed eleganza discrete, baviana nell’attenzione per l’inquietudine generata dai piccoli dettagli. E poi chi ha bisogno di soldi per le scenografie quando hai a disposizione location come Villa Manin e il Forte di Osoppo? Se proprio da Avati discende il gusto per le ambientazioni remote (purgato però dal bozzettismo caro al maestro bolognese, sebbene l’uso del dialetto friulano possa apparire a tratti troppo insistito), così come il presupposto dell’affresco è un riferimento diretto a La casa dalle finestre che ridono, la trama innesta le tematiche sataniche di Radice quadrata di tre su uno dei leitmotiv narrativi più cari a Lovecraft (che non specifichiamo per non rivelare troppo), in un crescendo che è anch’esso genuinamente lovecraftiano nella lentezza del ritmo con cui si dispiegano orrori innominabili fino alla rivelazione finale.

Lorenzo Bianchini ha ultimato quest’anno il suo quinto lungometraggio, Oltre il guado, la storia di un etologo che si imbatte in un villaggio maledetto nei boschi ai confini con la Slovenia. Lo guarderemo e vi faremo sapere. E magari ne approfitteremo per fare quattro chiacchiere con il regista. Nel frattempo, se amate gli horror d’atmosfera, recuperate quel misconosciuto gioiellino che è Custodes Bestiae.

10 commenti

  • Avatar di Luca Bergamasco

    “Chi ama l’orrido frequenta sovente luoghi strani e remoti, come le catacombe di Tolemaide e i mausolei notturni dei paesi dell’incubo. … Ma l’autentico epicureo del terribile, per il quale un nuovo brivido di orrore è il fine principale e la giustificazione dell’esistenza, apprezza più di ogni altra cosa gli antichi e solitari casolari disseminati nel boscoso [Friuli]. Perché è lì che i cupi elementi della forza, della solitudine, della bizzarria e dell’ignoranza, si combinano a formare la perfezione dell’orrido.”

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    • Avatar di ignis

      Lovecraft vive!
      Grazie di questo interessante articolo.
      E’ verissimo che talvolta i limiti di budget, se spesi bene, favoriscono la dialettica del non-visto. Aggiungerei che, alle volte, l’imperizia, quando giocata altrettanto bene, contribuisce notevolmente a rendere irrazionale l’atmosfera del film.
      Ottimo sarebbe Giuliano come attore.

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  • Monsieur Ibrahim e i Fiori del Male
    Avatar di Monsieur Ibrahim e i Fiori del Male

    riferimenti al pupi avati horror e a lovecraft, già sborro

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  • Avatar di Lorenzo

    A proposito di horror “regionale” (che brutta definizione), ho appena visto “Il Demonio” del 1963, ambientato a Matera, si parla streghe, fatture, esorcismi, persino capre lanciate contro una chiesa e c’è una scena che Friedkin deve avere visto:

    ma il tono è più che altro antropologico (credo).

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