Tre dischi per sopravvivere all’estate, vol.2

ryan06

L’unica ragione plausibile per scegliere il mare come meta di vacanze

Mentre per metereologi e appassionati dell’ombrellone “l’estate tarda ad arrivare”, per noi sfollati del Blashyrkh l’ondata di caldo insopportabile è giunta nel momento in cui il termometro ha deciso di superare i venti gradi di giorno. Ragion per cui, così come avvenuto lo scorso anno, si rende necessaria una dose di dischi adatti a superare le criticità stagionali.

Quattro anni di attesa per un nuovo disco dei MANEGARM sono un’eternità e, nel frattempo, i nostri si sono persi per strada un paio di pezzi (il bassista Pierre Wilhelmsson, uno dei fondatori del gruppo ed il violinista Jan Liljekvist, mica poco), sostituiti da un breve rimpasto interno che ha visto il cantante Erik Grawsiö imbracciare il basso, lasciando vuota la casella relativa agli archi.  Legions of the North riparte proprio lì dove terminava Nattväsen, anzi, avventurandosi ancora di più dentro i mefitici territori del black metal con la title track che rappresenta uno dei pezzi più pestoni mai prodotti dal quartetto svedese. Ed invece buona parte delle restanti undici tracce prende decisamente le distanze ma, se evitiamo di storcere il naso al pensiero che i Manegarm abbiano tirato fuori pezzi realmente melodici ed orecchiabili, si compone di canzoni di struggente bellezza, di quelle che ti viene voglia di intonare mentre arrostisci un montone sulla brace in onore di Thor. Vale per tutte l’epica Sons of War, una specie di versione vichinga di un qualsiasi inno dei Manowar, con le razzie ai villaggi e la difesa del culto di Odino al posto dei mutandoni di peluche e dell’esaltazione del vero metallo. Certo, la quantità di clean vocals (perfino una suadente voce femminile che fa capolino in Echoes from the Past) lambisce i livelli di guardia ed il disco patisce una certa discontinuità, diviso com’è tra pezzi tiratissimi ed altri molto più accessibili però, anche se preso come un disco interlocutorio, Legions of The North, segna lo stesso una nuova linea di partenza per i Manegarm. Compresa l’impossibilità di ripetere Vargstenen, i nostri hanno fatto come quei discreti centrocampisti, quelli che al fantacalcio fanno legna e con qualche sporadica spizzata su angolo portano anche i +3 risolutivi al momento giusto, che ad un certo punto capiscono che è il caso di arretrare di qualche metro e diventano leader della difesa. Ecco, i Manegarm oggi sono dei leader di un viking metal che, al contrario di quanto recentemente ascoltato con gli Amon Amarth, non si butta sulla ripetizione ad infinitum ma tenta un percorso più originale. E comunque, la prossima volta che qualcuno tenta di giustificare il cristianesimo citando le innumerevoli meraviglie ispirate dalla religione, voi citate i Manegarm. 

Qualche mese fa mi sono imbattuto in una discussione di 75 pagine sul forum di una webzine, una di quelle serie, con l’intera redazione composta da recensori che ne sanno un casino. L’argomento era il cascadian metal e di queste 75 pagine una buona ventina verteva sulla definizione di cascadian, con toni al limite del flame, per stabilire se si trattasse di un genere o di una scena e, qualora fosse valida la seconda ipotesi, se tale scena fosse geograficamente circoscrivibile o andasse intesa in senso più ampio. Se i siti porno inserissero la categoria “mental masturbation” (finirebbe anche in posizione strategica, tra il generico “menage” ed i video “metro” con le studentesse giapponesi che si fanno palpare sui mezzi pubblici), questa gente si giocherebbe la palma di video più visualizzato della sezione, insieme alle videoregistrazioni dei congressi del PD. Al di là di queste considerazioni, utili soprattutto per i futuri post della rubrica blog di donne belle, io ancora non ho capito cosa sia il cascadian metal ma quei dischi che mi vengono spacciati come tali non mi dispiacciono e tra questi faccio rientrare anche il nuovo del duo MOSS OF MONLIGHT, nonostante il nome faccia pensare subito ad una band gothic stracciatesticoli.
I due sono in giro da meno di tre anni ma la storia è andata più o meno così : nel 2006 Cavan Wagner, polistrumentista, forma i Winterfallen insieme ad una ragazzina di sedici anni, che piazza dietro ad un microfono ed in primo piano nelle foto promozionali, poi, dopo aver prodotto un demo, rimane folgorato dalla bellezza di Jenn Grunigen, un’appassionata di cavoli cinesi e cyberpunk che ama vestirsi come Lady Stark, molla l’ex bambina ormai donna, fonda i Moss of Moonlight, realizza un disco autoprodotto e, sull’onda dell’entusiasmo, si sposa con la sua nuova musa. Questo sodalizio, ormai cementato anche dall’unione di fronte a Dio, ha dato recentemente vita ad una nuova opera intitolata Winterwheel, ep di quattro tracce e quaranta minuti di musica, tra folk, black metal (quasi nulla, a dire il vero), passaggi acustici e tutte quelle cose che, i più navigati, racchiuderebbero semplicemente dentro l’aggettivo cascadian. Non so quanto sia pertinente come paragone ma a me sembrano una versione americanizzata dei primissimi Ulver, con vaghe reminiscenze di musiche tribali dei nativi indiani al posto di quello nordico-bucoliche dei norvegesi. Un ascolto obbligato, soprattutto se avete partecipato alla discussione fiume di cui sopra. Voi sapete chi siete.

I più assidui frequentatori del blog ricorderanno che, circa tre mesi fa, avevamo dato la notizia dell’imminente nuovo album dei Darkestrah. Non occorre che io vi ripeta quanto, col crollo del muro di Berlino, le antiche divisioni ideologiche siano ridotte a grottesche pantomime mentre l’attuale dualismo nella società moderna è rappresentato dai due gruppi migliori del mondo: i DARKESTRAH ad est degli Urali, i Folkheim ad ovest degli Urali. Due forme diverse di intendere la stessa sostanza, la definitiva deflagrazione dell’etnocentrismo occidentale, una geografia che allarga i propri confini donando finalmente dignità a suoni e culture un tempo ai margini. Insomma, mettetela un po’come vi fa più comodo, il punto è che su certi dogmi non si scherza e questa cosa dei gruppi migliori ad est e ad ovest degli Urali è uno di quelli. Manas esce a distanza di cinque anni da The Great Silk Road e conferma la verve creativa del terzetto kirghizo che, nonostante sia ormai stabilmente di stanza in Germania e probabilmente non metta più piede a Biškek da una vita, mantiene inalterata la capacità di trascinare l’ascoltatore in questa landa montuosa abitata da popolazioni nomadi ed in cui sopravvivono sciamani e riti ancestrali. Se c’è una cosa che mi ha sempre colpito dei Darkestrah è che, al di là della banale fascinazione esotica, riescono sempre a prendere le mosse da un black metal non particolarmente originale (il riferimento principale rimane ancora una volta Dark Medieval Times), reso unico non tanto dallo sporadico inserimento di parti folk suonate con gli strumenti tradizionali del Kirghizistan, quanto dalla loro straordinaria capacità di creare un contesto sonoro unico, qualcosa che è indiscutibilmente black metal ma che non è quel black metal che conosciamo abitualmente. Il nuovo album, coi titoli rigorosamente in lingua chirghisa, è un concept sull’epopea dell’eroe Manas, un poema lungo venti volte l’Odissea e l’Iliade messe  insieme e che racconta le gesta di questo condottiero che tra il X e l’XI secolo marciò contro i Kithari alla conquista dell’attuale Pechino. Trattandosi di un’opera dal valore letterario piuttosto povero e tramandata oralmente nel corso dei secoli, è molto probabile che l’attuale storia di Manas sia stata totalmente stravolta, un po’come quando alle elementari si giocava al gioco del telefono. Quale sia la versione dei Darkestrah non ci è dato saperlo (a meno che tra di voi non si nasconda qualche madrelingua kirghizo) e ci interessa relativamente perché Manas resta lo stesso un altro tassello nella carriera di uno dei due migliori gruppi del mondo. Non mi sembrava il caso di riproporre il fan video della title track, vi lascio alla lettura del poema e vi invito ad incrociare i fatti con quest’altro imprescindibile reperto storico.

5 commenti

  • Avatar di stiv

    ecco,
    e andiamoceli a sentire sti cascadiani

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  • Avatar di Nervi

    “…io ancora non ho capito cosa sia il cascadian metal…”

    Se ai bambini nelle scuole, invece della Bibbia, fossero state insegnate le storie tratte da Skyrim, ora avremmo generazioni di gente dedita al cascadian metal. E invece degli infantili sentimenti anti-cristiani, il metal estremo sarebbe un mezzo per portare alla memoria quel preciso attimo storico in cui l’uomo è rimasto scioccato dal fatto che la sua coscienza spirituale è “altra” rispetto a ciò che lo circonda, pur essendone figlia. Il cascadian metal è appunto un mezzo per riportare alla memoria questo tipo di sentimenti legati al passaggio evolutivo spirituale da bestia a uomo, con tutto il suo carico di nostalgia e paure. Questa è la mia interpretazione di quello che sento ascoltando questo tipo di musica.

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  • Avatar di Roberto

    Un vero spettacolo l’ultimo dei Månegarm.
    Due anni fa son venuti pure a suonare al fosch fest.

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