La Cina è vicina, ovvero: come imparai a non preoccuparmi e ad amare le Babymetal
Quando entrai a far parte della redazione di Metal Shock, mi venne detto che nel sito non vigevano regolamenti particolari, ad eccezione delle classiche limitazioni politically correct quando si trattano argomenti particolarmente sensibili come la religione, il razzismo o i Morbid Angel. Tutto ciò mi serve per giustificare il fatto che questo articolo riguardi in maniera più o meno dettagliata alcuni fenomeni musicali tipici dell’Asia senza che ci sia alcun riferimento alle dimensioni del pene degli asiatici, argomento spesso dibattuto nei salotti più in dell’Agro Pontino. Se vi fermate un momento a riflettere, noterete come qualsiasi accenno indistinto ad un ipotetico “metal asiatico” si scontri clamorosamente col nostro paradigma eurocentrico che intrappola in categorie prestabilite interi continenti. Voglio dire, la sola Cina ha un’estensione territoriale pari a quella di tutta l’Europa intera, quale cultura comune potrebbero avere un impiegato di Shangai ed un mercante di seta di Kashgar, quali esperienze potranno mai condividere, a parte quella di cercare “Dalai Lama” su Google ed ottenere gli stessi risultati? Magari potranno entrambi interrogarsi sul perchè venti anni di capitalismo feroce abbiano prodotto cose come queste.
VISUAL CHE?
In Giappone, l’assioma tipico degli antropologi secondo cui ogni cultura elabora un proprio sistema di riferimento che non può essere comparato ed ordinato gerarchicamente rispetto agli altri, va integrato con il seguente assunto : “se una cosa appare ridicola al 99% della popolazione mondiale, sicuramente arriva dal Giappone”. Dal Sol Levante arrivano le Baby Metal, tre dodicenni alte come dei goblin affetti da nanismo (le loro biografie non la spiegano esattamente così, ma il senso è quello) che hanno ridefinito i confini del metal e dell’ambigua sessualità nipponica e di cui si è già accennato in precedenza. Vestite come le scolarette che si fanno palpare il culo sugli autobus nei porno giapponesi, le tre bambine mostrano di possedere quell’attitudine genuinamente metal che avremmo voluto vedere anche dai Metallica ospiti da Fazio. Balletti compresi.
La vera e più grossa piaga sociale che infesta il Giappone, ancor più delle centrali nucleari strategicamente piazzate vicino ad un oceano che regala tsunami con cadenze olimpiche, è la presenza invasiva del visual kei, una sorta di subcultura giovanile che persuade milioni di persone a vestirsi come dei furry crossdressers che partecipano al carnevale di Rio. A parte il look e la maniacale, quanto involontaria, dedizione alla causa del trash (non è un refuso), non esiste una cifra stilistica unitaria per definire i gruppi visual kei dal punto di vista squisitamente musicale. Più che un genere è una sorta di clinica di riabilitazione virtuale per chi da piccolo ha abusato dei videoclip dei Dead or Alive e dei Culture Club, come testimoniano brillantemente i Kibouya Honpo.
I NoGod, invece, si prendono un po’ più sul serio. Certo, magari uno li vede, ripensa al fatto che The Tokyo Showdown sia uscito nel 2001 e più o meno in quel periodo, se non vado errato, Anders Friden ha iniziato a farsi i rasta e a vestirsi come 50 Cents e poi all’improvviso scopre che pure in Giappone il metalcore tira parecchio. Comunque, per la cronaca, il loro ultimo disco è uscito poco fa, si intitola Genjitsu ed è preceduto dal singolo Kamikaze, che, per chi se li trova davanti per la prima volta, non può rappresentare altro che una genuina dichiarazione di intenti.
Che poi, tutto sommato, forse è meglio vedere un gruppo di giapponesi che traduce le canzoni degli In Flames nella loro lingua piuttosto che vedere i Power Rangers suonare cover dei Ramones.
UN FOLKETTO TRALLALLÀ
Lasciamo da parte il visual kei, il Giappone e Voltron per volgere il nostro sguardo altrove. Un bel po’di anni fa ascoltai per puro caso il disco d’esordio dei Darkestrah, il quale scatenò in me tutta una serie di meccanismi di ricerca e curiosità per capire 1) dove diavolo fosse il Kyrgyzstan e 2) se la loro era una presenza unica in un luogo dimenticato oppure se da quelle parti c’erano altri come loro. Ovviamente la risposta al secondo quesito è no, non c’è nessun altro gruppo kyrgyzo e a ben vedere anche gli stessi Darkestrah se ne erano belli che andati in Germania già da un bel po’. In compenso a due passi da lì, poco tempo dopo, sarebbero usciti gli Ulytau, uno di quei gruppi che prendono una violinista mediamente appariscente (molto appariscente, se siete amanti del tipo russo con marcati connotati asiatici) te la sbattono davanti tutta bagnata in un videoclip e ti dicono “ecco, questo è autentico folk kazako”. Poi uno neanche ci fa caso che il resto del video è tutta una serie di ammazzamenti, colpi di kalashnikov e tragici inseguimenti in macchina.
Gli Ulytau, dall’alto del loro unico disco quasi interamente strumentale, pongono un interrogativo piuttosto serio sul modo di intendere e concepire il folk metal o qualsiasi altro genere ibrido che preveda contaminazioni con la musica popolare di una determinata regione. Buttare dentro due o tre strumenti tipici locali, magari decontestualizzandoli completamente rispetto al resto della composizione, ha davvero un senso? È vero che non possiamo essere tutti etnomusicologi e spesso l’entusiasmo iniziale si infrange dopo un paio di ricerchine su google neanche troppo approfondite, però a me pare che l’espediente folk si stia sempre più trasformando in un escamotage per uscire dalle secche del genere di riferimento e mascherare qualche idea non particolarmente originale. Un connubio ben più riuscito ce lo propongono i Tengger Cavalry, una one man band cinese di origine mongola che inserisce dentro qualche strumento tradizionale (il tobshur, il morin khuur e altri strumenti a corda che, sono certo, nessuno di noi ha la più pallida idea di quale suono dovrebbero emettere presi singolarmente) e uno spregiudicato utilizzo del canto armonico mongolo che, a dispetto di qualsiasi pregiudizio, non solo non suona come una ridicola forzatura ma dona ad alcuni pezzi — non tutti, alcuni confermano in pieno il pregiudizio di cui sopra — un’atmosfera mistica e straniante.
Che la Cindia rampiniana o l’Asia in generale, possano sfondare definitivamente anche nel metal mi pare, comunque, un’ipotesi più che remota, soprattutto alla luce di drammatiche testimonianze di redenzione come questa. A meno che non inventino finalmente il bukkake hello kitty black metal o la smettano di delegare ad altri le cover delle colonne sonore dei film di Miyazaki. (Matteo Ferri)


stavo cercando qualche idea da scopiazzare ..ma non sono ispirata nemmeno per un copia e incolla che si rispetti!!! eheheh
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