GRAVEWORM – Fragments Of Death (Nuclear Blast)
In epoche non troppo lontane e distanti nel tempo, i Graveworm hanno rappresentato la quintessenza del metal estremo italiano più fighetto ed esportabile all’estero, anche grazie a quella loro provenienza geografica un po’ borderline. Il nuovo millennio gli aveva portato in dono un contratto con la Nuclear Blast ed un trittico di album più che buoni, mai troppo sinfonici ma neanche mai troppo black metal. Il classico gruppo trasversale, che può piacere a tutti o a nessuno, col bonus simpatia dovuto al buffo accento alla professor Birkermaier e la coraggiosa scelta (ma d’altronde, che ne sanno questi altoatesini irredenti del bunga bunga) di avere una donna nella line up e relegarla all’invisibile ruolo di tastierista. Passata la sbornia, i nostri sono precipitati fragorosamente sulla terra con un paio di dischetti insulsi, incapaci di dare un seguito alla direzione musicale intrapresa con (N)Utopia e che hanno, di fatto, bruscamente interrotto qualsiasi possibilità di compiere il definitivo salto di qualità. I Graveworm attuali, ri-approdati alla Nuclear Blast, sono ormai rassegnati ad una carriera da eterni comprimari, uno di quei gruppi che sforna con puntigliosa regolarità album da sei politico, per la serie “il ragazzo è bravo ma si impegna poco”. Fragments of Death ne è la testimonianza più palese: smarrita completamente la bussola, il tentativo è quello di riproporre con maggior vigore il tessuto sinfonico, messo decisamente in secondo piano sia in Collateral Defect che in Diabolical Figures, innestandolo su composizioni che di estremo hanno solo la semplicità della struttura. Brani tanto immediati quanto anonimi, fuori tempo massimo perché appartengono palesemente al passato di una band che si è ritrovata imprigionata nei suoi stessi cliché che, a dirla tutta, non sono propriamente i “suoi”. Qua e là qualcosa emergerebbe pure, perfino il singolo See No Future, smaccatamente catchy, sembra quasi una benedizione dopo l’intermezzo sopra citato; il problema è che dopo un primo ascolto, rimangono impressi più o meno due minuti del disco e il tutto scivola via talmente liscio che neanche si nota l’assenza della consueta cover pop. Al terzo giro sopraggiunge il dramma esistenziale di chi assume la piena consapevolezza di aver perso tre ore della sua vita nel tentativo di riempire di significati qualcosa che in realtà non ne ha. Sì perché, senza girarci troppo intorno, Fragments of Death è semplicemente vuoto e, per quanto possa provare dispiacere nello stroncare un gruppo al quale è difficile voler male, tre indizi iniziano ad essere una prova piuttosto rilevante per farsi un’idea delle reali potenzialità degli italoaustriaci. Sarà pur vero che la concorrenza al momento non è agguerritissima, ma, fan sfegatati a parte, chi avrà voglia di approcciarsi con straripante entusiasmo al secondo disco interlocutorio (su otto totali) di un gruppo mai particolarmente originale? (Matteo Ferri)

hanno perso interesse per loro dopo (N)Utopia, confermo tutto il nuovo disco è di un banale e di un anonimo che lascia esterrefatti per quanto sia mediocre.
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