PROFONDO ROSSO (1975): cinquant’anni di un “prima” e un “dopo”

Apice del thriller all’italiana e uno dei migliori film dell’orrore a livello mondiale, Profondo Rosso rimane ancora oggi insuperato sotto molti aspetti: la profondità della fotografia, le inquadrature insistenti in soggettiva, la musica e, soprattutto, quel gioco malvagio di visto e non visto con lo spettatore: tutto concorre a creare un’opera di rara intensità, entusiasmante, terrorizzante e insieme beffarda. Profondo Rosso non è solo un grande film, ma rimane uno di quei casi rarissimi capaci di segnare un punto di non ritorno nella storia: c’è un “prima” e un “dopo” Profondo Rosso, con cui autori e spettatori dovranno sempre fare i conti. Uscito il 7 marzo 1975, e superato dunque il traguardo del cinquant’anni, il film continua a tornare in sala con proiezioni speciali nel corso dell’anno, come accadde già dieci anni fa per ricordarne il quarantennale. La cosa sorprendente è che, quando Profondo Rosso torna per l’ennesima volta al cinema o nelle sale private, mostra quanto sia ancora capace di inquietare e di fare paura. Terrorizza, sempre e chiunque, da cinquant’anni. Il punto non è soltanto “quanto sangue”, che in ogni caso non manca, o “quanta inventiva” si ritrovi negli omicidi: il punto è soprattutto la conduzione dello sguardo: Dario Argento mostra allo spettatore teatri, interni di case, dettagli in macro, strade buie, esterni assolati e, mentre lo convince a guardare qualche dettaglio, in realtà sta già preparando un colpo di scena, o meglio una coltellata, da un’altra parte.

Dario Argento sul set di Profondo Rosso

La famosa soggettiva argentiana non è solo una tecnica di ripresa, è un patto che conferisce a chi guarda un potere straordinario, perché permette di vedere attraverso gli occhi di qualcuno, ma che viene repentinamente tolto a seconda del capriccio della scena: in realtà ciò che manca è sempre il dettaglio decisivo, il quale può anche essere sardonicamente nascosto per un inganno dei sensi. È proprio qui che Profondo Rosso diventa modernissimo: non gioca solo con la violenza visiva, ma soprattutto con lo sguardo dello spettatore e lo fa con una perizia quasi musicale: ripetizioni, variazioni minime, ritorni. Un corridoio, una porta, un rumore, un riflesso, una stanza che sembra uguale alla precedente, ma non lo è. La grande lezione di Argento è in effetti l’uso degli spazi, in particolare quelli urbani, che sono al contempo scenografia affascinante e architettura mentale. La cornice in cui si muovono i personaggi è perfetta, perché Profondo Rosso si anima nella geometria degli ambienti, che possono essere piazze, portici, scale, ville, vetrate. Tutto sembra ordinato e razionale ed è proprio questo ordine quasi astratto ad incrementare l’intensità della paura quando è incrinato dalla follia e dalla violenza che ne deriva, perché chi guarda non ha più possibilità di appiglio. Tutto è visibile, l’orrore è sommo. Profondo Rosso è dunque un horror che rinuncia ad ogni espediente, come la nebbia o il remoto castello del gotico: il Male inventato da Argento è moderno, osceno, implacabile e si permette di agire quando meglio crede: al buio come alla luce, ma soprattutto nella quotidianità degli spazi abitati, irrompendo nella normalità.

L’altro enorme merito di Profondo Rosso che conoscono praticamente tutti è la musica. Dario Argento aveva già sconvolto una prima volta il mondo della musica per film, grazie alla collaborazione con Ennio Morricone nei suoi thriller precedenti, ma la vera rivoluzione arrivò quando scelse di rivolgersi ai Goblin, allora un giovane gruppo progressive sconosciuto, per completare la colonna sonora. L’accredito della musica di Profondo Rosso è stata a lungo confusa: Argento inizialmente coinvolse il compositore Giorgio Gaslini, poi chiamò i Goblin per riorientare e in gran parte riscrivere la musica verso un’impronta più rock e incisiva. Nel montaggio finale la colonna sonora è infatti un risultato di entrambi i contributi: il tema principale Profondo Rosso e altri brani sono composti ed eseguiti dai Goblin, mentre alcuni temi sono di Gaslini, in parte eseguiti dagli stessi Goblin, in parte da altri musicisti di studio, sotto la sua direzione. In ogni caso, buona parte del successo del film è dovuto alla musica. Il famosissimo tema principale è basato su un ritmo che alterna tempi pari e dispari, quindi è ipnotico e straniante, ma, anziché fare da semplice commento sonoro, provoca e spinge le scene, cosa che per altro fanno tutti gli altri brani dei Goblin. Le parti di Gaslini sono più classiche o jazzistiche, ma sono ugualmente geniali, basti pensare alla filastrocca che ricorre durante il “ricordo” del bambino: è una melodia apparentemente semplice, che però non consola, perché nasconde sorprese, sospensioni e dissonanze, quindi è il contraltare musicale perfetto all’aggressività dei Goblin.

Profondo Rosso ha la stessa qualità dei capolavori: non invecchia e, con il tempo, diventa cultura generale. Ha insegnato a generazioni di registi come si costruisce la tensione con la regia e con il montaggio, ma ha anche insegnato a generazioni di musicisti (rock, prog, elettronica, metal) che la paura può essere ritmica, ripetitiva e assumere una fisicità evocata dalle note. Cinquant’anni dopo, parlare di questo film non è nostalgia: siamo di fronte a un breviario, con il guanto nero, la lama che luccica e quel dettaglio sempre mancante che ti resta in testa molto dopo i titoli di coda. (Stefano Mazza)

3 commenti

Lascia un commento