La lista della spesa di Griffar: demonologia di fine anno

Uno dei dischi dell’anno, per il sottoscritto, è l’esordio dei canadesi ZEICRYDEUS, ennesimo progetto parallelo del fenomenale compositore e multistrumentista Philippe Tougas, anche conosciuto come Foudre Noire, braccio e mente di First Fragment, Chthe’ilist, Funebrarum, Worm tra gli altri. In questo caso ci propone un miscuglio di black metal di fortissima impronta greca anni ’90 (spero non sia necessario scrivere una lista di chi sto parlando), thrash, power speed e progressive spiazzante, originale, decisamente ardito nel suo concepimento e suonato come solo un guitar hero può fare.

Esaminiamo l’inizio del disco come “parte per il tutto”: dopo una intro che non sfigurerebbe in un disco epic power comincia Ten Thousand Spears Atop the Bleeding Mountain, che si apre con una sequenza di riff che ricordano in modo impressionante lo stile del disco eponimo degli immensi thrasher texani Rigor Mortis, per poi passare a schemi propri del black metal ellenico d’antan, mentre un basso in primissimo piano disegna ritmiche complesse e difficilissime prendendosi in carico di portare i dieci minuti del brano verso picchi di qualità proibiti ai più, con tanto di assoli, mentre le ritmiche della chitarra e le linee di tastiera sono per un certo verso più basilari. Bene: l’intero disco è così, possono affiorare stili di band passate all’improvviso sì che la chitarra ritmica assuma maggior importanza, oppure andare per conto proprio senza punti di riferimento, ma La Grande Hérésie è un concentrato di genuina genialità per tutti i suoi 42 minuti di durata. Speriamo non resti episodio isolato, purtroppo al momento Zeicrydeus ha solo lo status di progetto parallelo.

Il duo americano EAYONDIG esordisce con Ivory Eye, gustoso EP di tre brani, circa venti minuti di musica di interessante black metal atmosferico Made in U.S.A. Oramai hanno il marchio di fabbrica, ascolti e ti godi questo black di vaga reminiscenza europea rivisitato in ottica distorta e straziata, con riff ripetitivi più lunghi di come venivano concepiti qui da noi in Europa, ben più attorcigliati e confusi e pertanto capaci fornitori di oscurità gelatinosa, concreta, come fosse un’entità vivente.

Il tutto intersecato quasi all’improvviso da tastiere ambient o da sezioni evocative vicine al cascadian black, che teoricamente dovrebbero alleggerire la struttura del pezzo allentandone l’oppressività, ma in pratica altro non fanno che incrementare la tensione. Voce in screaming canonica, appropriata, brani ben concepiti e costruiti con perizia. In mezzo alle decine, centinaia di dischi pubblicati anche quest’anno con davvero poco da dire, gli Eayondig si ritagliano uno spazio più visibile. Possono crescere, i fondamentali ci sono tutti e le prospettive pure.

Through the Endless è il titolo del secondo capitolo sulla lunga distanza degli ETERNAL DISSONANCE, one-man band formata da Pere Aguiló quando aveva appena vent’anni, il quale in questo specifico caso si fa chiamare Dargon mentre negli altri suoi progetti di solito usa il suo nome di battesimo. Con questa entità mette in mostra la sua vena creativa più malinconica, spirituale, al limite del trascendente, del rito religioso pagano fortemente interconnesso con gli elementi.

Ci si aspetterebbe che qualcosa di simile arrivasse da climi più nordici e freddi piuttosto che dalla Spagna, comunemente associata a soli brillanti e temperature calienti, invece ci dobbiamo ricredere: chi oggi è tra i più credibili concorrenti di Fen, Arx Atrata, migliori Winterfylleth proviene dall’Europa meridionale. Il bello è che lo fa con un album (come suo solito) interamente strumentale, forma di black metal piuttosto atipica giacché spesso nell’atmospheric black l’unica cosa che allaccia le composizioni al genere più estremo è proprio la voce. Non qui, non ce n’è bisogno, i brani sono cupi e tragici senza necessità di uno screaming che ne rafforzi il risultato. Ci si lascia avvolgere da melodie tristi, dolenti eppure fascinosamente suadenti, davvero in grado di toccare le corde dell’anima di chi ascolta. Il disco poi è snello, quattro brani per 32 minuti complessivi, ben composti, sapientemente arrangiati ed orchestrati grazie a sdoppiamenti delle tracce della chitarra, rallentamenti, passaggi acustici sottolineati da soffuse tastiere. Eccellente. Digitale o fisico in CD per mano di Darkwoods records (66 copie appena).

Il 2025 vede anche il ritorno del gruppo solista islandese ZAKAZ, il cui unico componente Kristján Jóhann Júlíusson si fa chiamare I, giusto per non complicarci troppo la vita. Si occupa di tutto lui, registrazione e produzione comprese. Merki Sólar è il suo terzo album (ci sono anche 2 EP in curriculum) ed è come in precedenza un misto tra il black metal classico, un po’ di pagan/viking, un po’ di melodeath scandinavo discretamente tecnico, stacchi folkeggianti, ambient, acustici, chitarre riverberate effetto cosmico, voce cavernosa in prevalenza non screaming (ci si avventura raramente) o cantata pulita quando subentra l’anima più nordica e pagana dei pezzi. Che sono sette: il disco è snello e dura 35 minuti, con la sola traccia omonima che è sensibilmente più lunga delle altre ed è anche il brano migliore dell’album. Va detto che la musica composta dall’artista islandese è assai eterogenea, è proprio una sua caratteristica alla quale non rinuncia; Í Trójuhesti Samvizkunnar comincia in fast black ad esempio ma tale non rimane da inizio a fine, così come ogni pezzo è sostanzialmente diverso dal precedente e dal successivo. Quello di Zakaz è un black metal evoluto, più cerebrale, più “erudito”; poco gli importa di blasfemie e demoni vari, è proprio tutta un’altra cosa, un altro livello. Gran bel disco anche questo. (Griffar)

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