La gente non sa che si perde a non essere metallari: SACRED STEEL // PORTRAIT @Centrale Rock Pub, Erba – 27.11.2025
Foto e video di Yamilé Barcelò
La maggior parte delle persone sul calendario si appunta la data del concerto dei Metallica, dei Maiden o di chissà chi altro. Io sul calendario mi ero appuntato la data dei Sacred Steel al Centrale Rock Pub. È una presa di posizione ben precisa: non ci può essere niente di più TRUE di un concerto dei Sacred Steel al Centrale Rock Pub. Ho provato a coinvolgere chiunque abitasse nel giro di trecento chilometri, ma l’unico che ha risposto alla chiamata è stato Luca Venturini, benedetto dagli Dèi del metal, lui che ascolta quasi solo death metal, neanche conosceva i Sacred Steel e quando gliel’ho proposto mi ha detto: “Ma fanno power? Se sono tipo i Rhapsody non è proprio il mio genere”, e io gli ho risposto tranquillo Luca, non voglio una risposta immediata. Ascoltateli e domani mi rispondi. E lui il giorno dopo mi ha risposto che cazzo sì, sarebbe venuto, ringraziandomi pure per averglieli fatti scoprire. Io però condivido il tragitto verso la lontana Erba con il potentissimo Andrea, il cui nome in antico cherusco vuol dire colui che spezza il pane con Odino. Ci mettiamo un’infinità di tempo, perché Erba è veramente in culo ai lupi, ma non fa niente, perché noi siamo persone serissime e oggi ne vale veramente la pena.
Quando arriviamo sul posto, per comodità denominato Centrale Rock Pub solo perché il tempio dell’acciaio dove gli Dèi del metal infondono la loro arcana potenza negli animi dei veri credenti e dettano le precise condizioni per la lenta e angosciante morte violenta dei nemici del vero metal era troppo lungo, purtroppo i THE VOURTICOUS hanno appena finito di suonare. Ma attaccano subito gli EVELYN ROGER, romani come l’imperatore Tiberio, il terrore dei Parti. Cantano in italiano e fanno un metallo generico piuttosto maideniano, e di colpo mi sembra di essere tornato negli anni Novanta. E infatti in loro c’è un certo afrore di garage novantiano, nel senso buono del termine. Attaccano un pezzo che mi prende benissimo, dev’essere il loro cavallo di battaglia perché si fermano per far partire il coro a tutto il locale, io mi piazzo davanti al palco e gli grido qualche DAJE di approvazione per farli sentire a casa. Mi prende talmente tanto bene che a fine concerto gli andrò a chiedere come si chiama quella canzone con cui avete fatto partire il coro (a proposito, si chiama Evelyn). Gli altri pezzi non mi prendono così bene, ma lo spirito c’è, lo spirito continua, e fa tutto parte del fascino dell’ingenuità. Loro sono talmente fuori moda da fare tutto il giro un paio di volte ed essere quasi originali, quantomeno considerato che siamo nel 2025. Ci sono comunque buoni punti di partenza da cui sviluppare tante cose belle, vediamo cosa succederà in seguito.
Poi ci sono i PORTRAIT, gruppo spalla di extralusso della serata, che pur avendo uno stile estremamente classico e ottantiano non c’entrano però moltissimo con gli headliner. Io li avevo visti qualche anno fa a un palco sfigato del Wacken, peraltro in prima fila, ma dopo venti minuti me n’ero dovuto andare perché oh, stavano per cominciare gli In Extremo sul palco principale. Già all’epoca mi lasciarono una buona impressione, nonostante i suoni non eccelsi, ma qui finalmente ho la possibilità di godermeli nella migliore situazione possibile: al chiuso, a due metri dal palco e attorniato da un selezionatissimo pubblico di difensori del vero metal. E loro non deludono: il loro metallo devoto al verbo del Re Diamante, oscuro, profondo e a suo modo raffinato, fa breccia nei cuori degli astanti e si conferma degno di un posto alla tavola rotonda dell’acciaio. Se da un punto di vista musicale non si può veramente fare loro alcun appunto, mi sento però di suggerire che, in sede live, alla loro proposta gioverebbe un pizzico di teatralità in più. Ma vanno benissimo anche così, belli diretti e massicci e senza fronzoli. Da ribeccare la prossima volta che passano di qua.
E quando finalmente l’orologio scocca le undici l’atmosfera prende a vibrare dei colpi del martello di Thor contro l’incudine del falso metal. Il locale è piccolo, il pubblico è esiguo, poco più di cinquanta astanti, ma raramente ho visto una dedizione così intensa sia sopra che sotto al palco. Mi ha ricordato quella volta in cui andai a vedere i Manilla Road in uno squallido seminterrato postsovietico a Varsavia poco prima che Mark Shelton morisse, ma per il resto non ho altri paragoni da offrire. I SACRED STEEL suonano da quasi trent’anni e in questi trent’anni sono stati in pochi a comprenderne la reale portata; ricordo fin troppo bene le recensioni di Reborn in Steel e Wargods of Metal in pienissima ubriacatura power metal, quando in pratica li si accusava di non accodarsi al carrozzone e di non avere un clone di Kiske alla voce. Erano tempi grami, ma il tempo proverbialmente è galantuomo, e i tedeschi sono riusciti lentamente e faticosamente a crearsi un affezionato pubblico di true believer capace di comprenderne lo spirito.
Sin dall’attacco con Metal is War l’andazzo è chiarissimo, e davanti ai nostri occhi scorrono immagini di ciò che potrebbe accadere a un nemico del vero metal se per caso capitasse in questo sacro tempio dell’acciaio. Mutilazioni, sangue, intestini, amputazioni e morte sulla testa dei poser falsi e bastardi, e insieme blasfeme invocazioni ai demoni che popolano i più abietti recessi dell’inferno, affinché ascendano alla Terra e la rendano uno sterile freddo deserto. Gerrit Mutz è un perfetto cerimoniere, uno che ha capito perfettamente che cos’è il metal e che cosa rappresenta, e mentre snocciola inni immortali come Battle Angel, Wargods of Metal e Sacred Bloody Steel ci sentiamo a casa e ancora una volta ci ricordiamo del perché noi siamo nel giusto e tutti gli altri nel torto. Quando alla fine scende tra il pubblico per cantare tutta Heavy Metal To The End diventa chiaro come questo sia uno dei concerti che ci ricorderemo per tutta la vita. Gloria a chi c’era, ignominia a chi non c’era.
Adesso però è il momento di muovere accuse precise, perché amici, qui c’è gente che piuttosto che stare sotto al palco dei Sacred Steel a cantare Heavy Metal To The End abbracciato virilmente a Gerrit Mutz ha preferito fare qualcosa di molto poco eterosessuale. E considerando che il tour comprendeva anche una data a Bologna e una a Roma, e l’unico che ha risposto alla chiamata è stato Ciccio (che gli Dèi del metal possano posare la propria mano benevolente sul suo capo benedetto), allora vedete che la suprema onta, ahimè, si allarga alla maggior parte dei collaboratori di questo blog, i quali si meritano la tremenda maledizione che il faraone Nubkheperra Intef scagliò contro Minhotep, corrotto amministratore del tempio di Min, il Dio della fertilità con il pene eretto:
Che egli sia cacciato dal tempio del mio genitore Min, che i suoi figli e le loro generazioni a venire non abbiano più accesso all’amministrazione del luogo sacro, che egli sia privato di ogni cosa e gli si portino via il pane, la carne e ogni altro cibo, che il suo nome non venga mai più ricordato in questo tempio, come si conviene a colui che si ribella.
Amici, ricordatevi che il tempo scorre veloce e l’ora fatale si avvicina. Smettetela di rincorrere falsi idoli e ricordatevi ciò che siete. Perché un giorno vi ritroverete attorniati dai vostri nipotini che vi chiederanno con tono accusatorio dove eravate quando i Sacred Steel venivano a suonare in Italia, e voi non saprete che rispondere, e loro torceranno il collo da voi, e quando morirete lasceranno il vostro corpo in un campo di patate, alla mercé degli animali saprofagi. Tornate sulla retta via del metallo, prima che sia troppo tardi. (barg)







Devi espiare. Abito a 30 minuti, ma ero appena tornato da una vacanza in Croazia, non ho ritenuto di abbandonare la famiglia. Barg, appena ci vediamo, somministrami la Giustizia. Non voglio essere mancante davanti a Odino.
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