La finestra sul porcile: IL MOSTRO (di Stefano Sollima)

Il mostro – Anatomia di un’indagine di Michele Giuttari è il quadro descrittivo a cui ho dato il maggior peso, nell’ambito delle note vicende di cronaca nera fiorentina. Trattandosi di una questione mai chiusa, e mai risolta, ognuno è libero di credere alla pista sarda, a quella del legionario o al fatto che si trattasse dello stesso individuo che negli Stati Uniti si firmava Zodiac.

Stefano Sollima, che sono certo saprete chi è, altrimenti apro parentesi (Soldado, Gomorra, Romanzo Criminale), ha diretto una miniserie di quattro episodi interamente incentrata sulla cosiddetta pista sarda, e che principalmente ruota attorno agli eventi del 1968 e all’omicidio di Barbara Locci e Antonio Lo Bianco. Di quest’ultimo, si evince in quelle quattro puntate, non frega un cazzo a nessuno.

Non so che dire a riguardo. L’argomento, essendo io nato a Firenze e cresciuto a Scandicci, giusto a un paio di chilometri dall’Anastasia Club (lì dietro, a poca distanza, avvenne uno dei duplici delitti), mi è noto e caro, e pertanto mi sono fiondato sul prodotto Netflix con la stessa voracità con cui, all’epoca, consumai quella di Antonello Grimaldi, totalmente dedicata ai familiari della defunta Pia Rontini.

Naturale che il regista che ha diretto Soldado, e quindi Benicio Del Toro e Josh Brolin, avrebbe conferito alla sua opera un taglio maggiormente cinematografico, e non meramente televisivo, nel senso italiano del termine, come accaduto una quindicina d’anni fa. Il che è un bene con tutte le complicanze del caso: le musiche sono le stesse musiche oggigiorno sentiamo dappertutto, un misto di forti vibrazioni e rumori, non un pattern o una melodia che siano una, almeno non c’è da assoldare un’orchestra come ai vecchi tempi; e la fotografia è sottoesposta come in un qualunque Batman. Almeno si risparmia sulla scenografia, perché, che in scena siano inquadrate due o dieci automobili, a malapena vedrete il volto scoglionato di Stefano Mele inquadrato in primo piano. Riduzione dei costi, i produttori ci vanno pazzi specie se poi porti ugualmente risultati. Il Mostro è attualmente la serie tv più vista su Netflix, quindi ha vinto lui.

Al termine della prima puntata mi ero detto non è male come dicono, perché mi ero già imbattuto in una decina di ultracinquantenni che su Facebook ne andavano parlando malissimo.

Il problema di questa serie è che sfocia nel grottesco per alcune cose, pur mantenendo un piglio serissimo, e che rimane sempre lì. Oltre al fatto che parte dalla ampia caratterizzazione di una delle piste meno interessanti di tutta quanta la vicenda, salvo poi mostrare Pietro Pacciani – che riempie di cristi e madonne la moglie e le figlie in cortile – nel minuto finale dell’ultima puntata. 

La Toscana è così caratterizzata: ci sono due etnie, un 50% di nativi toscani e un 50% di sardi emigrati dall’isola per scopare qualunque cosa si muova, alla necessità con l’uso della violenza sessuale. I maschi sardi parlano perfettamente quando portano avanti la sceneggiatura, talvolta sussurrano come nelle fiction RAI, e sbroccano in un dialetto animalesco quando si incazzano fra di loro. Il loro unico compito è scopare e sviare il fatto che sono in Toscana principalmente per delinquere. Se non hanno una donna la rimorchiano; se non riescono a rimorchiarla la stuprano; se la stuprano, nella scena successiva lei è rimasta incinta o ha appena partorito; utilizzano una figura cornuta come cartello segnaletico per indicare a famiglie intere che a casa sua c’è da scoparne una, che è comunque sarda. Se un gatto miagola per strada è altamente probabile che verrà scopato da un maschio sardo. Se in una scena non è presente una donna sarda, due uomini sardi che si sarebbero ritrovati in combutta per la stessa si mettono a succhiarsi il cazzo a vicenda, si amano, e al riapparire di una donna potrebbero uccidersi all’istante.

Le donne sarde hanno un’aspettativa di vita fra i 20 e i 30 anni, nel corso dei quali, comunque, mettono al mondo un intero condominio di bambini di origini sarde, lasciati a giocare e cacare sul pavimento mentre, nelle altre stanze, i concittadini scopano e concepiscono ancora. Le donne sarde anziane hanno più baffi di Tom Selleck e sono riuscite in questo modo a sopravvivere all’ecatombe anale. Non solo, trattano di merda le donne giovani pure loro. Le quali o si fanno violentare dal vicino di casa o vengono ammazzate nelle maniere più cruente e originali.

Le stesse, inoltre, non hanno giorni favorevoli al concepimento e giorni sfavorevoli: come fanno sesso rimangono incinte, e la popolazione mondiale secondo Sollima si autoregola con le frequenti e cruente uccisioni.

Qualcuno ora azzarderà: nell’Italia non scolarizzata del patriarcato era davvero così, e allora Pacciani, Lotti e Vanni? Vedete, il fatto è che una quarta puntata in cui dal primo all’ultimo minuto si vede gente che scopa chi non dovrebbe, con alle spalle qualcuno geloso nascosto fra le frasche (come se avesse messo un Apple Tag nelle mutande di lei, perché la trova sempre), non è una caratterizzazione credibile. È tutto spinto all’estremo: la inevitabile sottotrama omosessuale, il femminismo spinto di Silvia Della Monica, che appena apre bocca pare la Cortellesi nel suo più grande successo. E’ tutto giusto, ma tutto troppo spinto oltre i limiti della credibilità. Bravissimo, dal suo canto, Marco Bullitta nella parte di Stefano Mele.

I toscani sono la stessa cosa che sono gli europei descritti nei film americani, quando vedi le nostre grandi città come se si fossero fermate agli anni Sessanta.

Vaia bischero!

Bada che pipe fa quella!

Se tu seguiti te lo butto nicculo!

Considerando i noti politici che sono fuoriusciti dalla suddetta regione, in cui sono nato e cresciuto, e in cui creperò, non ho nulla da obiettare sul fatto che non ci meritiamo niente di più che questo. Però, porca puttana, un minimino di criterio metticelo. Un personaggio mentalmente normale metticelo. Lo so che questa è la storia della busta da lettere contenente del pelo e del tralcio di vite infilato dentro, ma così mi fai South Park ambientato a Camaioni.

Inoltre c’è una ripetitività totale di alcune scene: Barbara Locci la vediamo morire un centinaio di volte, poiché, se ogni puntata è dedicata a un ipotetico mostro, sempre di origini sarde (il sunto è che tutti erano dei mostri, nessuno era pulito, ma uno solo di loro è scomparso e sono scomparsi i delitti: a sentire Giuttari il solito discorso fila per Pacciani mentre era in carcere per altri motivi), ogni volta rivedremo le medesime scene rilette dal punto di vista e dal movente del mostro di turno. Arrivare in fondo a quattro puntate così impostate, e cioè per molti versi identiche fra loro, è stato come fare una maratona dopo una settimana a stomaco vuoto.

La seconda stagione la do quasi per scontata. Vedremo per otto o dodici puntate le origini di Pietro Pacciani sin dalla prima uccisione di una lucertola impiccata con lo stelo d’erba, un dodicenne Mario Vanni che si scopa le marmitte delle macchine inneggiando al Duce e il Lotti che ride fra i baffi da piccolo. Oppure Stefano Sollima, che è un bravissimo regista, e un bravissimo autore, si accorgerà che c’è da correggere un minimo il tiro. (Marco Belardi)

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