Avere vent’anni: HELLOWEEN – Keeper of the Seven Keys: the Legacy
Fare uscire la parte seconda di un proprio disco uscito anni o decenni prima è un’idea veramente minchiona, a meno che non ci sia qualcosa di realmente concreto che unisca i due album, tipo non so, la continuazione di un concept o qualcosa del genere. Non è questo il caso del presente Keeper of the Seven Keys: The Legacy, che non ha davvero nulla a che spartire con i due capolavori a cui si richiama. Non che sia brutto in senso assoluto, eh, anzi è uno dei più riusciti dell’era Deris, ma è appunto un classico disco degli Helloween di quelli con Andi Deris alla voce, con la stessa alternanza di stili che si possono ritrovare in uno qualsiasi di questi dischi, gli stessi pregi e gli stessi difetti, la stessa produzione eccetera. Se questo l’avessero chiamato Rabbit don’t Come Easy e quest’ultimo l’avessero chiamato Keeper 3 non sarebbe cambiato nulla. Al limite avrebbe avuto più senso chiamare così il disco della “reunion”, pure se questo qui in oggetto è comunque molto meglio. E senza contare il minuscolo dettaglio che lì in formazione c’erano Kai Hansen, Michael Kiske e Ingo Schwichtenberg, qui vabbè.
Il disco in sé, come detto, non è brutto. Essendo un doppio album è abbastanza lungo, anche se non troppo (77 minuti), ma, molto meno prevedibilmente, non ottiene il temuto effetto-mattone che verrebbe fuori se un’operazione del genere la facessero adesso. Come sempre accade coi dischi degli Helloween è abbastanza eterogeneo, a causa della varietà di compositori. L’autore più prolifico è al solito Andi Deris, che ha firmato le due canzoni migliori, ovvero The Shade in the Shadow e la lunghissima Occasion Avenue (undici minuti), sinceramente bellissime, che entrerebbero di diritto in un greatest hits degli Helloween post-1988. L’abbronzatissimo cantante firma poi altri tre pezzi, tra cui l’usuale singolone allegrotto (Mrs. God) e la terrificante ballatona strappamutande in duetto con Candice Night (Light the Universe), più altri due pezzi in collaborazione con, rispettivamente, Sascha Gerstner e Markus Grosskopf.
Passando ai chitarristi, Gerstner è autore di due pezzi, The Invisible Man e Pleasure Drone, entrambi abbastanza peculiari per lo stile degli Helloween, seppur con esiti diversi (trascurabile il primo, carino il secondo). L’apporto del grande capo Michael Weikath si limita a sole tre tracce, nessuna delle quali particolarmente rilevante. Infine l’apertura The King for a 1000 Years è opera di tutti e cinque i membri, compreso il batterista, ed è un pastone abbastanza duro da digerire anche per la durata esagerata, vicina al quarto d’ora.
Insomma il Keeper 3, chiamiamolo così, alla fine dei conti fu una bella sorpresa. Ricordo che le mie aspettative erano piuttosto basse, sia per i cambi di formazione sia per la trovata pacchiana di intitolarlo in questo modo, ma anche a distanza di tanti anni rimane un bell’ascolto, nonostante i parecchi alti e bassi. Meglio il secondo disco del primo, anche per la presenza delle citate Occasion Avenue e The Shade in the Shadow, e credo che nonostante tutto sia il miglior lavoro degli Helloween degli ultimi vent’anni. Comunque, come detto, sparisce al confronto con Majestic dei Gamma Ray, pubblicato contemporaneamente, e che peraltro è un album decisamente minore della discografia di Kai Hansen. (barg)


Ho rivisto da poco il DVD del relativo tour “Live on 3 continents”, sempre molto piacevole.
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Tutto sommato è un disco a cui sono piuttosto affezionato, perché lo comprai in gita di 3° superiore a Salamanca, assieme al terribile live post-reunion dei Motley Crue. King for a 1000 years invece mi piace molto.
Ma Candice Night che fine ha fatto? Tiene ancora Blackmore prigioniero sotto incantesimo?
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Qualche tempo fa fece un duetto in un disco degli Avantasia
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