Sembra metallo ma non è (parte seconda): i VÁGTÁZÓ HALOTTKÉMEK, sciamani unni

Seconda parte di una serie pigra, nata per rispondere a una domanda che nessuno ha posto: che toppe dovremmo procurarci per confezionare un giubbetto jeans da festival solo di band non-metal, ma che consiglieremmo caldamente anche ai nostri amici metallari oltranzisti? L’altra volta abbiamo parlato di un’oscuro duo franco-argentino tra tango e satanismo. Oggi l’attenzione è rivolta invece Oltrecortina.

Ci sono band, pochissime in realtà, che ti fanno pensare alla loro musica come a una delle possibili, infinite forme che il rock avrebbe potuto prendere in un universo parallelo. O in un’ucronia particolarmente fantasiosa. Tipo i Magma, i folli del prog jazz francese. Solo per fare un esempio. Nessuna mi viene in mente però che abbia radicalmente liberato il rock occidentale da ogni suo legame di appartenenza e di canone quanto gli ungheresi Vágtázó Halottkémek. Band letteralmente unica, isolata, pochissimo conosciuta eppure monumentale, che quest’anno ha festeggiato i cinquant’anni di storia con un album di settanta minuti intensissimi. Band dal messaggio cosmico, universale, in origine osteggiata in patria (vedremo tra breve), eppure che per motivi linguistici (e forse non solo) non è certo popolare fuori dai confini d’origine, a parte tra qualche sparuto circolo di avvisati. Sparuti eppure “pesanti”, chiedete a Iggy Pop, Jello Biafra, Henri Rollins, Neurosis, Einstürzende Neubauten. Band da Oltrecortina, nata quando c’era ancora l’URSS (e si faceva ancora sentire…), punk prima del punk, eppure mai votata al nichilismo del no future. Anzi, votata semmai ad un misticismo che fonde musica minimale, folklore, antropologia, psicologia, cosmologia. Una band che ovviamente in cinquant’anni ha visto ruotare tantissimi musicisti, ma partita in origine da una formazione che includeva fisici nucleari, fisici e basta, insegnanti. Riunitisi attorno alle idee ed al carisma di Attila Grandpierre. Scrittore, poeta, storico autodidatta, biologo, astrofisico, docente universitario, oggi ricercatore dal profilo istituzionale e presidente del Budapest Centre for Long-Term Sustainability. Insomma, quest’uomo qua.

Gli ungheresi sono stati forse i primi a tentare di sollevarsi dal giogo oppressivo sovietico e anche i primi a sperimentarne la cruenta repressione messa in atto coi carri armati. Era il 1956 e Attila Grandpierre aveva circa cinque anni. Non penso quindi abbia dei ricordi di prima mano di quegli accadimenti. Discendente da una famiglia di esuli ugonotti francesi, che annovera diversi avi distintisi in politica o nella cultura, suo padre, Endre Granpierre K., era storico e scrittore. Il giovane Attila è quindi cresciuto in un ambiente colto, immerso nel quale ha potuto coltivare già da bambino i suoi interessi per il cosmo e la musica. Erano gli anni in cui i due imperi si sfidavano nella corsa allo spazio e le tracce dell’influenza più o meno subliminale che questa nuova prospettiva aliena aveva sulla psiche collettiva di ambo le parti della Cortina sono note.

In America, con la paura del Pianeta Rosso, delle invasioni di Ultracorpi, contraltare del priapismo che portava a gloriarsi di lanciare grossi falli metallici in erezione nel vuoto sconosciuto dello Spazio. Sempre nell’emisfero capitalista, pensate pure all’angoscia di una nazione costretta a convivere con colpi di stato periodici che trova sfogo in una storia di alieni venuti dallo spazio ne L’Eternauta di Oesterheld e Solano López, pubblicato dal ’57 al ’59, da cui è tratta la recente serie Netflix.

Nei territori controllati dal Partito Comunista, dove l’espressione individuale aveva qualche difficoltà ulteriore, la fiera propaganda fatta di cagnolini mandati a morire dentro una lavatrice in orbita non ha comunque potuto proibire del tutto opere inquiete in letteratura (i fratelli Arkady e Boris Strugatsky) o anche nel cinema (Tarkovskij, Żuławski). Ma forse, per il piccolo Attila, il Cosmo non è una possibilità di evasione da angoscia terrene. Anzi. L’entusiasmo è tale che, negli anni della scuola, i razzi se li fabbrica lui, da solo, in casa, e questa cosa gli dà una certa notorietà tra i giovani ribelli dei tempi. L’entusiasmo per la scienza lo porta a laurearsi come fisico astronomico nel 1974 e ad aggiungerci un dottorato nel 1977. Eppure nemmeno gli impegni da studente brillante lo hanno distolto dall’altra sua passione altrettanto totalizzante, quanto quella per il Cosmo.

Nel 1975 il punk non era ancora nato, nemmeno Oltrecortina. Per lo meno convenzionalmente, parlo di quello anglo/americano. C’erano già state esperienze proto-metal e Ur-punk, il suono di Detroit, certe forme di krautrock in Germania. Io pensavo fosse comunque una follia che all’epoca un ventenne ungherese potesse essere cosciente delle avanguardie occidentali, al di qua della Cortina, e invece è lo stesso Attila in un’intervista ad aver raccontato che ai tempi aveva una delle più grandi collezioni di dischi prog di tutta l’Ungheria e che le sue principali ispirazioni erano Blue Cheer, Pink Floyd, Popol Vuh, Ash Ra Temple, Amon Duul II. Attila che nel ’75 è laureato e, anzi, è da un po’ che da ripetizioni a uno studente più giovane, il batterista László Ipacs (futuro fisico), che col suo amico chitarrista Czakó Sándor (futuro fisico nucleare) comincia a mettere in piedi una band coinvolgendo, prima solo come guida, il nostro Attila. Poi, visto che come agitatore culturale se lo contendono altri complessi, lo blindano nel ruolo di cantante. Completano la prima formazione il chitarrista Molnár György ed il bassista Simon Miklós, primo nucleo di una band che in cinquant’anni di peripezie muterà del tutto (Attila escluso).

È sempre Grandpierre a dare il nome al complesso, il Vágtázó Halottkémek con cui sono noti tuttora, per quanto esista un acronimo ufficiale che semplifica la vita a tutti (VHK), ma anche le traduzioni in inglese (Galopping Coroners) ed in tedesco (Rasende Leichenbeschauer) che semplificheranno invece le comunicazioni internazionali quando i nostri riusciranno ad uscire dai confini magiari. La prima parola del nome starebbe per l’energia primordiale che la musica si prefigge di scatenare, la seconda simboleggia il fatto che la maggior parte della gente vive la vita ad un livello elementare, come morti viventi, e quindi i musicisti sarebbero i coroner che ne diagnosticano il disagio terminale. Macabro, provocatorio, ma un po’ diverso dal nichilismo no-future degli inglesi. Anche perché non c’è mica solo Ur-punk nel DNA dei nostri. Sempre dell’intervista citata prima:

Quindi ho scoperto l’antica musica folk di Eurasia e ho realizzato che trascende le sensazioni individuali. È una musica che parla a un’intera cultura, una cultura che unisce milioni di vite, di una dimensione gigantesca riempita di dolore e gioia, sentimenti catartici che conducono ad una vita piena di significato. Era una cultura che era parte di uno scambio spirituale col Cosmo, rivelatoria che la vita nel suo insieme è così stupenda, e talmente edificante che dobbiamo ricambiare, dobbiamo restituire alla Natura, all’universo Vivente, sorgente di tutte le nostre vite, la vita dell’umanità qui sulla Terra. Da quel momento in poi divenni capace di unire la mia autocoscienza col muezzin interiore. E mi sono consacrato ad utilizzate le mie abilità per migliorare questa unità cosmico-collettiva tra l’umanità e l’Universo Vivente.

Si parte col verso giusto, vincendo inaspettatamente un concorso di band esordienti messo in piedi dall’esercito. Ma è solo un’illusione, le difficoltà arrivano in parallelo con la popolarità crescente del gruppo presso la gioventù, più o meno ribelle, in quegli anni. C’entra sicuro l’attitudine “sovversiva” di Grandpierre e compagni. C’entra la musica, da subito selvaggia e senza freni.

Non è facile da descrivere oggi, ché per lo meno di dischi pubblicati ne abbiamo diversi. Degli anni ’70 dei VHK non mi risulta restino registrazioni e io personalmente sono riuscito a procurarmi solo bootleg successivi, della prima metà degli anni ’80, comunque la fonte più prossima per immaginare come suonassero, agli esordi. E siccome in tutta la discografia successiva i Nostri sono rimasti sempre piuttosto allineati alla stessa “visione”, proviamoci a descriverne la musica, immaginando appunto che non fosse tanto diversa, nella seconda metà dei ’70: due chitarre elettriche caotiche e rumorose suonano riff elementari e grezzi su una batteria pestona (ecco il riferimento al punk, o per lo meno Ur-punk). Non coagulando il suono in canzoni, bensì in lunghissime jam/epopee free-form liberate in etere, tra reminiscenze di danze sciamaniche orientali e canti di comunione cosmica e psichedelia scura. A dire il vero, tornando a quei bootleg, la musica sembra molto spigolosa e urticante, un po’ più cerebrale (o cervellotica) rispetto al suono “di pancia” delle prime uscite ufficiali. Per dire, un po’ una fratturazione art-wave alla Pere Ubu. Che, attenzione, si sono formati anche loro nel 1975.

Ad ogni modo, i VHK suonano ad un livello di violenza parossistica e caotica tale da non avere poi molto a che spartire con la musica dei ’70. Sono molto più affini, guardando all’insieme della loro esperienza, al chaos industriale degli Einsturzende Neubauten, se vogliamo, o all’indecifrabile epopea degli Swans. La componente folk non si esprime con strumentazioni tradizionali o acustiche, quanto nell’applicazione di forme melodiche ripetitive che evocano il legame ancestrale più o meno conscio degli ungheresi coi loro antenati, barbari cavalieri delle steppe dell’Asia centrale, piuttosto che con i figli delle civiltà indoeuropee che li circondano. Ah, la voce di Attila Grandpierre: sgraziata, sopra le righe, quasi sempre oscillante tra urla e litanie insistite. Non è facilissimo attecchire con un suono così, ma le scoperte che si possono fare sono ben fertili, ve lo prometto. Non chiedetemi di parlarvi dei testi: le intenzioni e lo spirito della band mi sono più o meno chiari, ma non conosco una singola parola di ungherese e nemmeno so pronunciare il nome della band. Prima dell’avvento dei traduttori automatici installati nei browser nemmeno potevo attingere ai pochi articoli divulgativi sui media ungheresi che si trovano sul web.

E se la musica selvaggia dei VHK certo non poteva renderli ben visti agli occhi delle autorità morali e poliziesche ungheresi, anche l’atteggiamento strafottente e provocatorio di Grandpierre e soci non aiutava. A fronte del divieto di registrare e diffondere la loro musica, i cinque musicisti se ne andavano per le vie del centro di Budapest diffondendo dai registratori a cassette il loro caos. Un po’ come avrebbero fatto poi i CCCP, assaltando di sorpresa le piazze dei villaggi sui colli emiliani a bordo di un furgoncino con sopra gli amplificatori e le casse. Solo che Ferretti e Zamboni non rischiavano la ritorsione di una polizia segreta. I VHK sì, minacciati e pedinati dagli agenti, e mentre aumentava la loro popolarità, i (pochi) concerti che sono riusciti ad organizzare sono stati tutti interrotti dalla polizia. Fu poi proibito loro di organizzarne altri, divieto aggirato presentandosi al pubblico con altri nomi, fino a che non sono stati del tutto banditi, letteralmente e per ben undici anni, nel loro stesso Paese.

Paradossalmente, il punto di svolta è proprio una conseguenza di questo esilio (artistico e no). Perché è a Berlino che trovano al possibilità di farsi notare liberamente, senza persecuzioni per la loro arte iconoclasta. La Berlino della prima metà degli anni ’80 nella quale, ricordiamolo, David Bowie aveva appena rinnovato il proprio repertorio e dove esuli australiani (i Birthday Party di Nick Cave ma anche i Crime & the City Solution) si stavano ibridando con le avanguardie europee. A Berlino un regista di nome Wolfgang Müller, anche membro del gruppo sperimentale Die Tödliche Doris, era rimasto impressionato dai VHK, conosciuti tramite le loro apparizioni sulle pellicole (sperimentali, ovviamente) del loro connazionale Gábor Bódy. Müller invita allora il problematico complesso ungherese a raggiungerlo nella ex capitale assediata. Da qui, dal 1984, i VHK hanno iniziato ad esibirsi con una certa regolarità prima in Germania e poi in Olanda, nonostante i tentativi delle autorità ungheresi di ostacolarli con mezzucci quali il ritiro dei passaporti. Persino la regina Beatrice dei Paesi Bassi interviene per fare pressioni diplomatiche e consentire ai VHK di esibirsi. Sorprendente, perché certo non stiamo parlando di gente che abbia mai avuto la popolarità, che so, degli U2. Persino il cancelliere austriaco si spende per loro. Ma delle amicizie diplomatiche sicuramente ci interessiamo meno che di quelle musicali. Attorno al 1988 i VHK si sono fatti notare e, anzi, entrano in contatto con reciproca ammirazione con Jello Biafra, i Neubauten sopra menzionati, Herny Rollins ed Iggy Pop. Un allentamento della pressione del regime comunista (il Muro era lì lì per crollare) consente a VHK e Rollins Band di suonare in Ungheria. Poi, nell’89, la Rollins Band stessa porta con sé i VHK in tour in Inghilterra. È fatta, finalmente.

Nel frattempo, nell’88, i VHK erano riusciti a pubblicare in Germania, a tredici anni suonati dalla loro nascita, il primo LP, intitolato A Halál móresre tanítása, che poi nel ’90 venne ripubblicato per il mercato USA dalla Alternative Tentacles di Jello Biafra col nome, a noi comprensibile, di Teach Death a Lesson. Siamo di fronte a cinque brani selvaggi, ripetitivi, violenti, caotici. Si parte con l’assalto stoogesiano fuori controllo di Ki vele az Istenért, tanto per chiarire che, anche se questo non è punk ortidosso, in termini di assalti violenti i VHK sicuro non sono in difetto. Epopee da dervisci Ur-punk-kraut-psych (Tárulj világ), momenti più quieti, divagazioni ed un finale totalmente free-form a chiudere un album caotico e coraggioso.

Non sarà meno convulsa l’offerta contenuta in A világösztön kiugrasztása del 1990, anch’esso pubblicato da Alternative Tentacles col titolo alternativo in inglese (Jumping Out The World-Instinct). Stesso caos punk sciamanico con dissonanze e spaesamenti martellanti e violenti degni degli Swans. Canzoni vere e proprie non ce n’è, ma anche qua le danze si aprono col brano che ha i riff (Hallo, Mindenseg!). Il finale invece, Indulok!, è un inferno ancora più parossistico. Chi cerca melodia, strutture e grazia stia alla larga. Chi cerca energia, invece, ne ha quanta ne vuole.

Il caos sembra quasi acquietarsi in favore di un’epica più mistica ed intelligibile con A semmi kapuin dörömbölve (Hammering On The Gates Of Nothingness), del 1992, aperto da un vero e proprio inno, Hunok Csatája, che sul Tubo trovate anche eseguito dal vivo insieme al “nostro” Attila (Csihar). Restando una prova energica ed elettrica, il lato folk e tribale assume predominanza. C’è sicuro ancora spazio, tanto, per il punk selvaggio e liberatorio (Az Én Lőrései, Botrányos Probléma). Grandpierre a tratti sembra preoccuparsi di cantare, quando i ritmi calano e sale una specie di malinconia blues unna. Comunque la si pensi, musica che avrebbe valso la pena “sperimentare” dal vivo, perché nemmeno il solco del vinile può davvero ritrasmettere certa energia, cosmica o meno, che deve esserci stata su palco. Un’idea noi comunque ce la possiamo fare grazie al live dell’anno successivo, Óriás tér!, nel quale la musica dei Nostri ci appare ancora di più come una forma di jam psichedelica trascendentale ed elettrica, screziata ormai di chitarre industrial metal.

A questo punto tante cose sono cambiate, compresa la situazione politica in Ungheria. I VHK sono ormai sdoganati anche se, vuoi per motivi linguistici oppure per la natura ostica di quello che suonano, la popolarità che hanno in casa (da lunga data, nel 1984 un sondaggio di una rivista ungherese stimava che fossero il gruppo preferito di uno studente su due in Ungheria), fuori patria non possono naturalmente ottenerla. Pur se con estimatori di un certo livello oltre oceano, restano uno dei segreti meglio custoditi dell’Europa dell’Est. La carriera “classica” intanto prosegue coi due Az Éden visszahódítása I e II (Reconquering Eden – 1st e 2nd attack), rispettivamente del 1997 e del 1998, sempre selvaggi ma forse meno caotici e violenti. Il successivo live Naptánc (Dancing with the sun), del 1999, chiude questa fase della carriera degli ungheresi con un affresco monumentale. Da recuperare per lo meno l’epica estatica di Csodaszarvas-idéző in apertura, ma la trance dei nostri si fa ormai piu rarefatta (non per questo molto meno incompromissoria). Qui si interrompe questa seconda, o forse terza, fase della storia degli ungheresi, quella più “tradizionale”, fatta di dischi ed uscite regolari. I VHK si sciolgono, o vengono chiusi in un cassetto, ed Attila Grandpierre prosegue con un’incarnazione interamente dedicata al lato folk sciamanico, chiamata proprio Vágtázó Csodaszarvas (Galopping Wonder Stags). Poi nel 2009 Grandpierre torna alla prima incarnazione, modificandone il nome Vágtázó Életerő (Galloping Life Power), per rimarcare la sua attitudine del tutto positiva, ma tornerà presto alla ragione sociale classica, con formazione rinnovata anche per le energie di musicisti più giovani. Escono così nuovi album. Quello di quest’anno (ribadisco, a cinquant’anni dalla loro formazione) è addirittura il quinto di questa fase nuova. Chissà se avrà un seguito. Se fosse il loro testamento (e speriamo di no), sarebbe comunque conclusione degna di una storia davvero fantastica. (Lorenzo Centini)

Ok, ma quindi sul giubbetto di jeans cosa mettiamo? Che ne dite di una bella toppa a tutta schiena con il logo della band, metà aquila stilizzata, metà teschio di bisonte (o quel che è)?

Un commento

Lascia un commento