Un attimo prima dell’Apocalisse: SWANS – Birthing

Ci eravamo lasciati un paio d’anni fa con The Beggar in un’atmosfera da addio, da commiato, da ultimo tentativo di purificazione e invece eccoci qui a parlare della nuova creatura di Michael Gira. Ma le impressioni avute due anni fa avevano un fondo di verità, e quella “stanchezza” – che il deus ex machina aveva più volte esternato con riferimento alle opere pachidermiche che hanno contraddistinto l’ultimo corso della band – era reale. E infatti Birthing rappresenta la fine di questi Swans, di quelli massimalisti nella forma (numero di componenti del gruppo) e nella sostanza (le solite due ore ad album), in quanto Gira ha dichiarato che, per limiti di età e per la tangibile fatica che comporta suonare dal vivo queste composizioni, è ufficialmente terminata la fase “massimalista” del gruppo. Certo, già negli ultimi due album c’erano delle canzoni che lasciavano intravedere una maggiore semplicità e una voglia di rientrare nei canoni della forma canzone, ma dalle dichiarazioni di Gira il futuro sarà molto diverso e porterà una band in misura ridotta con una proposta ancora ignota.

Restando al presente, invece, Birthing è un disco che, se da un lato si inserisce perfettamente nel solco tracciato negli ultimi quindici anni, dall’altro è un ritorno, ancora più deciso, al trittico The Seer/To Be Kind/The Glowing Man, e allo stesso tempo una finestra verso quello che verrà, come lo erano stati, in parte, Leaving Meaning e The Beggar. Ed è un lavoro semplicemente magnifico che, nonostante ad un primo acchito lascia un che di “incompiuto”, vuoi perché da tempo è finito l’effetto sorpresa, vuoi perché è difficile entrare subito in un album, come sempre, così ambizioso, con il passare degli ascolti lascia ancora una volta abbacinati dalla luce, mai salvifica, tracciata dagli Swans e dal calore che questa musica riesce a trasmettere all’ascoltatore, tra loop infiniti, strutture circolari e abissi di nichilismo.

In cosa si traduce tutto ciò? Che accanto ai soliti monoliti di decine di minuti, troviamo anche composizioni più brevi (si fa per dire), come la straniante Red Yellow in cui la voce di Jennifer Gira viene usata un po’ come la Jarboe nei suoi ultimi dischi con gli Swans, oppure come Guardian Spirit, curioso incontro tra le sonorità degli ultimi album e quelli della prima parte della carriera degli americani (prendete cum grano salis questa affermazione), soprattutto nelle ritmiche “marziali” che, seppur con sonorità diverse, scandivano quegli album. Due brani che in parte si distaccano da quel magma di note, da quell’ascesa sonora verso il nulla che, per chi scrive, rappresenta il suono di questi Swans e che resta una delle espressioni musicali più interessanti di questi ultimi tre lustri.

Se, come più volte ho scritto, il post-rock è la musica di quello che c’è dopo le macerie, la colonna sonora di tutti i finali possibili, la proposta di questi Swans è un’ideale colonna sonora dell’attimo prima, di quando tutto sta finendo, dell’apocalisse, prima di tutto interiore, dell’umanità. Verso tutto e verso niente. E anche in questa occasione, come sí intuisce sin dall’iniziale The Healers, il risultato è ancora una volta sorprendente. E lo è perché, se ormai la proposta del gruppo è “codificata”, allo stesso modo non è mai la stessa, pur suscitando sensazioni simili.In questo caso, pur adottando soluzioni più, appunto, massimaliste rispetto al passato prossimo, all’interno delle singole composizioni si trovano passaggi spiccatamente più melodici, come i Velvet Underground della seconda parte di I Am a Tower  o del brano omonimo, tra le cose migliori mai scritte dai Nostri, non solo di recente.

Melodia che, invece, è quasi del tutto assente nella cupissima The Merge, che si apre con un violentissimo attacco ai limiti del puro noise e si chiude con un western apocalittico e un coro che si spegne lentamente nell’atmosfera, lasciando attonito l’ascoltatore, prima di condurlo allo splendido finale di (Rope) Away. Una composizione che sembra essere quasi una registrazione delle improvvisazioni live dei nostri, che per quindici minuti è pura stasi, semplice ed attonita attesa. Prima dell’ingresso della voce di Gira, quasi un gigante che si aggira tra le rovine e osserva, commosso, quanto si staglia davanti al suo sguardo. E se uso un linguaggio così visivo e metaforico è perché, per quanto mi riguarda, questa è l’unico modo possibile per approcciarsi a questi dischi: chiudendo gli occhi, spegnendo il cervello e lasciandosi travolgere dal suono più assoluto creato, ancora una volta, da Gira e soci. Altrimenti è tutto inutile e può diventare anche noioso.

Se siete tra quelli che non hanno mai apprezzato i dischi della reunion, potete tranquillamente lasciar perdete l’ascolto di Birthing. Per tutti gli altri, ci troviamo davanti ad un’ennesima opera monumentale che si erge diverse spanne sopra la media delle uscite contemporanee. (L’Azzeccagarbugli)

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