Mo’ ce ripigliamm’ tutt’ chell che è ‘o nuost’: PELICAN – Flickering Resonance
Il ritorno dei Pelican è per il sottoscritto un fulmine a ciel sereno. Un giorno, mentre navigavo l’internet in cerca di altra roba, ho scoperto che era uscito questo nuovo disco. Bah, dopo le semi-porcherie che mi avevano fatto mandar giù da dieci anni a questa parte, la prima cosa che ho pensato non è stata certo “minchia! Un nuovo disco dei Pelican!”, quanto piuttosto “minchia… un nuovo disco dei Pelican…”.
Flickering Resonance è però sorprendentemente solido: la band di Chicago torna a occupare il proprio posto tra i maestri del post-metal strumentale. Il nuovo lavoro non cerca l’impatto immediato, non si affida a esplosioni improvvise, ma costruisce lentamente. Accumula, stratifica, cresce. E, quando finalmente deflagra, l’effetto è travolgente.
Si tratta, appunto, del disco più incisivo della band da oltre un decennio. Credo che un fattore non secondario di questa riuscitissima prova sia il ritorno in formazione di Laurent Schroeder-Lebec, chitarrista fondatore della band e assente dal 2012. La sua presenza riporta in primo piano quell’equilibrio peculiare fra tensione e malinconia, che aveva reso memorabili lavori come The Fire in Our Throats Will Beckon the Thaw (2005) e City of Echoes (2007). I successivi dischi, a partire da Forever Becoming (2013), mancavano di quella brillantezza che oggi, invece, torna a farsi sentire.
Il riff iniziale di Gulch è rivelatore. Le tessiture sono ben congegnate, sia che i brani avanzino con austera lentezza che con ritmiche più veloci. I riff si abbattono talvolta come una frana al rallentatore, densi e inesorabili. Altre volte (Specific Resonance) vengono costruiti da melodie chitarristiche ripetute, con una eccellente gestione delle dinamiche, e qui la tensione sonora diventa vero e proprio strumento espressivo: ogni transizione è scolpita, ogni fraseggio pesa, ogni climax vibra di un’urgenza trattenuta.
L’intero album si regge su una sottile alchimia tra rigore strutturale e intensità emotiva. I brani si allungano senza disperdersi, costruendo ambienti sonori che fondono sludge atmosferico, desert rock, derive ambient, inserti psichedelici e impalcature post-rock. La sezione ritmica guida i pezzi con precisione, mentre le chitarre sovrappongono trame stratificate, evocando di volta in volta paesaggi desertici e rovine cosmiche.
Tra gli episodi più significativi spicca Evergreen, che mi ha ricordato le sonorità dell’era City of Echoes, e Wandering Mind, in chiusura, forse il brano più singolare della raccolta: sospinto da un basso ipnotico, fluttua come un sogno a occhi aperti, una corrente lenta e avvolgente. In alcuni passaggi l’album flirta con il doom più introspettivo, mentre altri mostrano l’approccio più diretto e vigoroso della formazione, senza perdere mai profondità.
La produzione è trasparente, ma calda: ogni elemento trova il proprio posto, ogni suono respira. Non c’è nulla di ridondante: la composizione è asciutta, precisa, finalizzata a una narrazione musicale coerente e intensa.
Nel panorama odierno, in cui il poco post-metal che ancora circola non gode certo di ottima salute, Flickering Resonance emerge come un lavoro maturo, consapevole e vitale. Forse ripropone formule già note, ma le ravviva con una tensione nuova. Mi sembra l’opera di una band che ha attraversato un periodo di sterilità artistica, di stasi, e muove il primo passo verso una rinnovata vitalità, con musica più essenziale e più libera.
I Pelican, da sempre, affidano tutto al suono. Nessuna voce, nessuna parola: solo vibrazione, peso, densità. E con questo disco ribadiscono la forza espressiva del linguaggio strumentale, inteso come veicolo di emozioni e visioni. Non si tratta di innovazione vera e propria, almeno nella proposta musicale, ma di fedeltà e di ritorno a una poetica sonora che ha detto tanto ma che ha ancora molto da dire.
Mi piacerebbe pensare a Flickering Resonance non solo come a un ritorno, ma come un possibile nuovo inizio. Un album che, per forza, equilibrio e coerenza, già si impone come una certezza di questo 2025. (Bartolo da Sassoferrato)

Ottima recensione e gran bel disco. Studiato nei particolari, con riff e atmosfere di livello che non si sentivano da un po’.
P.S. Caro recensore, il tuo nickname è solo un omaggio al giurista o sei veramente di Sassoferrato?
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Grazie. Si, bel disco.
Omaggio al grande giurista, maestro di ponderazione.
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Ma a proposito di ritorni, si sa niente dell’attesissimo ( da me ) ritorno dei Coroner? E’ forse l’unico gruppo che riascolterei volentieri dopo tanto tempo ( insieme agli Atheist )
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Del ritorno dei Coroner ne sento parlare da anni. Un po’ come Half-Life 3.
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