La finestra sul Porcile: I PECCATORI

Partiamo dalla coda: andate correte a vedere in sala I Peccatori, perché a dispetto del successo planetario che il film sta avendo, in Italia non è stato affatto promosso e la sua distribuzione, soprattutto in lingua originale (unica versione da prendere in considerazione per un film del genere), è estremamente limitata. Ed è un peccato, perché il quinto film di Ryan Coogler, il primo davvero indipendente dal buon esordio Prossima Fermata Fruitvale Station, è un “horror” come non se ne vedevano da tempo ed è senza dubbio la sua opera più riuscita: coerente, libera, intelligente e coraggiosa, anche quando non riesce a mantenere il giusto equilibrio.

Perché ci vuole coraggio e libertà anche nell’esagerare e Coogler, che già aveva girato uno dei film Marvel più anomali e senz’altro coraggiosi con Black Panther, in questoSinners (per una volta beneficiamo di una traduzione letterale di un titolo), ha dimostrato di possedere entrambe queste qualità. Parlavamo di coerenza artistica e ideologica: che lo si apprezzi o meno, Coogler ha dimostrato ampiamente di credere in quello che fa e di avere una visione decisamente netta su tematiche sociali. E al di là dell’esordio, basato su un fatto di cronaca, questa visione emergeva in modo netto anche nel summenzionato Black Panther e nello stesso Creed, nonostante i limiti imposti dal lavorare in tali contesti e trova ne I Peccatori, il suo sbocco più sincero e senza filtri.

La storia è semplice e la struttura è bipartita: partendo da antiche leggende che derivano dalla tradizione africana e arrivano al delta del Mississipi – proprio dove Robert Johnson si trovò al crocevia con il demonio – secondo cui una certa musica è in grado di evocare il maligno e di far uscire le più bieche pulsioni di ognuno di noi, due gemelli dal passato burrascoso (entrambi interpretati dal sempre ottimo Michael B. Jordan) tornano nel 1932 nella loro città natale (Clarksdale, Mississipi), dopo sette anni passati a Chicago alla corte di Al Capone, per aprire uno Juke joint,  un locale per soli afroamericani dove ascoltare del buon blues, ballare, giocare d’azzardo e divertirsi. La prima parte è una sorta di “dramedy” storica, perfettamente bilanciata tra dramma, commedia e gangster movie sgangherato in cui si procede lentamente ad una “convocazione” delle parti coinvolte per l’apertura del locale, sullo stile de I Magnifici Sette e Blues Brothers, per restare in tema strettamente musicale, perché in Sinners la musica ha un posto di prim’ordine. In questo contesto assume grande rilevanza la chiamata di Sammie (l’ottimo esordiente Miles Caton), cugino dei due protagonisti, con una passione per il blues e spesso impegnato come musicista nella locale chiesa, dove il padre opera quale pastore. Ed è qui che viene introdotta la prima “biforcazione” tra il bene, incarnato nella possibilità di redenzione anche “imposta” agli afroamericani schiavizzati nei decenni precedenti, e la caduta nel “peccato”, incarnato nella musica del demonio, il blues di quegli anni.

In questa prima parte il film vive di questi dualismi – esplicitati anche dalla scelta di far interpretare a Jordan due gemelli – che si inseriscono in un contesto di apparente passaggio ad un’integrazione che è solo di facciata, in cui il “diverso” (sia esso afroamericano, asiatico, etc) è accettato – non da tutti – solo se accetta di rinunciare alle proprie radici, mentre vige ancora la legge di Jim Crow e il Klan la fa ancora da padrone, soprattutto in alcuni Stati. Un contesto in cui i lavoratori nelle piantagioni vengono ancora pagati con monete di legno e in cui gli indiziati di colore sono linciati prima di un processo, o messi ai lavori forzati. Vi ricorda qualcosa? Perché è proprio lì che vuole arrivare Coogler e – ed è qui la forza del film – questo risultato non viene raggiunto tramite i soli registri da “film di denuncia”, ma attraverso un tono satirico che, d’un tratto, si trasforma in un horror anni ‘80/’90 che gioca con i generi, ricordando e citando apertamente il cinema di John Carpenter, George A. Romero, Joe Dante e, al tempo stesso, la struttura – e non solo, ma non vogliamo rovinare la sorpresa – di un cult come Dal Tramonto All’Alba.

Perché dopo la preparazione e il reclutamento si arriva al clou, al Juke joint in cui, aderendo ad una visione moralista che è stata “imposta dall’alto” si consuma il peccato e tramite la musica maledetta si trascende lo spazio, il tempo, si dà libero sfogo al proprio io e, in un vero e proprio contrappasso, si attira il maligno. Che, come è giusto che sia, è mellifluo e accomodante e offre la vita eterna e, soprattutto, l’eguaglianza e l’accettazione: perché il male, come da tradizione, non entra, ma chiede di entrare e vuole essere accolto.

Ed è in questo contesto che Coogler comincia ad andare a briglie sciolte, anche a livello di ambizioni, sconfinando con una naturalezza estrema – non sempre in pieno controllo, ma va benissimo così- tra horror, musical (con uno dei migliori piani sequenza visti negli ultimi anni), film sulla musica (in tal senso la colonna sonora di Ludwig Göransson merita di essere accostata a quelle dei capolavori horror di quei mostri sacri menzionati poc’anzi), revenge movie e vero e proprio action muscolare anni ’80. Il tutto per confluire verso un messaggio forte, che più che Jordan Peele (la cui riflessione, come nello straordinario Nope, è potentissima, ma più “intellettuale) mi ha portato alla mente il primo Spike Lee.

Perché, alla fine della fiera, che cos’è il vero orrore se non una società che vampirizza le radici altrui in nome di un multiculturalismo che è solo di facciata, frutto di politiche benaltriste in cui si cambia solo la forma per non cambiare mai la sostanza, quella dove le differenze di trattamento permangono e, anzi si incancreniscono? E chi è, quindi, il peccatore per Coogler? Di certo non chi sceglie una redenzione facile, e forse neanche chi promuove un’”unione istituzionalizzata” che cancelli passato e radici, una sorta di incorporazione imposta dall’alto. Lo è, però, chi accetta tutto questo per sentirsi accettato e accolto, perdendo – in questo caso davvero – la propria anima, a differenza di chi abbraccia ciò che si è veramente – e qui la musica ha un ruolo davvero importante ed emozionante- ne accetta le difficoltà e non concede compromessi.

Perché in quel caso, come viene esplicitato nel finale del film, anche se poi tutto andrà in malora, si è davvero liberi di essere ciò che si è e quella “visione dell’alba” vale più di un’eternità da pecora. (L’Azzeccabarbugli)

2 commenti

  • Avatar di Sam

    Così dovrebbero essere le recensioni: oltre la superficie ma senza scendere troppo nel dettaglio invogliando chi legge ad andare a vedere (leggere, ascoltare, ammirare…) l’opera in questione.Questa recensione lo fa.Metal Skunk offre sempre spunti interessanti e fuori dalle solite opinioni piotate di cui sono pieni web, stampa e televisione.Bravi. E bravo l’Azzeccabarbugli

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  • Avatar di weareblind

    Avevo letto la recensione su “I 400 calci”, totalmente stroncato. Il che è interessante, diametralmente opposto.

    Quindi, vedere per decidere.

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