MESSA – The Spin
In realtà, a dispetto delle voci che circolavano circa il fatto che questo sarebbe stato il disco “wave” dei veneti, io stavolta mi aspettavo piuttosto che per la prima volta i Messa se ne sarebbero usciti con un disco “alla Messa”. E il singolaccio The Dress, otto splendidi minuti (e quattordici secondi) nel loro puro, ormai consolidato stile, pareva confermarlo. E sarebbe stato comprensibilissimo, arrivati alla visibilità dopo una sequela breve e spiazzante di uscite, una migliore dell’altra (e comunque ognuna diversificata). Mi aspettavo quindi una specie di riassunto per piazzarsi così, definitivamente, con l’abito buono e nel giro che conta, possibilmente pure con qualche dividendo. E non c’è nessun dubbio che The Spin sia studiato per essere il disco “della svolta”, se si dice ancora così, coi tempi che corrono. Certo, se li è accaparrati la Metal Blade, per cui chiaro che è arrivato anche il momento di rendere conto a qualcun altro. Ci mancherebbe.
Non c’è nessun dubbio che The Spin debba fare il botto e si propone di farlo cambiando direzione, verso una maggiore fruibilità (da non confondersi con alleggerimento), quando la cifra loro era sempre stata la complessità. Una mossa “da cavallo” ancora perfettamente coerente col percorso, eppure paradossalmente non lineare. Uno scarto a lato, sul più bello. Ci sono quelle sfumature anni ’80, manco tanto sfumature, e in più una certa semplicità. Apparente, forse. Immediatezza, comunque. Fino a ieri i Messa avevano continuato ad andare un po’ oltre, ogni volta, aggiungendo e sovrapponendo, suoni e silenzi, modalità e incastri, jazz, drone, folklore mediorientale. Stavolta c’è una breve collezione di canzoni, sotto un bellissimo arazzo di neon. Sister of Mercy e Banshees, così, già nelle chitarre in apertura. Il “disco facile” dei Messa, mi dicevo ai primi ascolti, ma così facile non è mica. Certo, le canzoni stavolta hanno sviluppi (quasi) lineari, o per lo meno si percepiscono come tali: “semplici” canzoni, più spontanee e meno artefatte. Meno volutamente complesse, meno costruite. E il paradosso è tutto qua, perché The Spin, per suonare così immediato, è sicuramente frutto di un lavoro ancora più certosino dei predecessori. Per riassumere tutto in una linea, un suono o un haiku ci vuole molta più fatica, è roba che riesce a pochi. Una volta seguii un corso di sceneggiatura ed il docente mi disse che, quando rileggi quello che hai scritto, devi sempre chiederti se l’insieme funzionerebbe anche senza quella frase o quell’altra. Esercizio difficilissimo. Immagino che i Messa siano andati incontro a un processo simile, questa volta. E questo non significa che quello che ne è venuto fuori è un disco strofa-ritornello-assolo. E non ci avrei visto nemmeno nulla di male, io, figuratevi.

Più lineare, “formato-canzone”, è però tutta la prima parte del disco, il lato A. Una Void Meridian sorprendente, dark-wave chitarristica e ritornello crooning leggiadro e svenevole. Poi il singolo At Races che, circolarmente, riparte un po’ dalla Dark Horses del precedente album. Quindi, tra fanali sintetici intermittenti, arriva Fire on the Roof, brano della discografia dei Messa con cui si dovrà fare i conti, d’ora in avanti. Loro, noi e parecchia della competizione nella scena stoner/doom/dark e quant’altro. Nella semplicità della composizione, Alberto Piccolo incastra in poche partiture sintetiche la fantasia orientalista di Jimmy Page e il suono ansioso e post-atomico di Geordie Walker. Li fa distillare insieme in un RIFFONE totalmente scavezzacollo. Eppure profumato, rifrangente. Quasi la formula di Kim Thayl, specie agli esordi. E immaginate quante endorfine, per uno come me, voler risentire certi ‘Garden qua dentro, tra le righe. Però Piccolo ha una cifra sua, lo sappiamo, per me è letteralmente uno dei migliori chitarristi in circolazione, e la libertà che si prende di entrare uscire da stili, partiture e battute all’interno della stessa canzone è uno dei motivi che hanno reso i Messa uno dei gruppi più personali che ci siano al momento. Non è il solo motivo, come non lo è nemmeno la solita vocalità inappuntabile di Sara Bianchin. Anche stavolta è tanta la creatività dei quattro, mentre lo sforzo, riuscito, è stato quello della sintesi. Esercizio difficilissimo, quando hai spesso tante idee per ogni singolo pezzo, ma il risultato è convincente al cento per cento.

Mossa del cavallo, dicevo, scarto sul lato, ma anche un ritorno circolare, ciclico, una specie di inizio nuovo, un ricominciare da capo, come una band nuova, quasi esordiente ma con una prima vita già alle spalle. Band maturata, evoluta ancora una volta e ancora perfettamente fedele a sé stessa. Che nella seconda parte del disco, il lato B, sembra quasi quella che conoscevamo già, con le divagazioni jazzate di The Dress, per dire. Che continua a minacciare di tanto in tanto fulmini e saette black metal, con nubi e rombi che arrivano vicinissimi ma poi si dissolvono, come certe belle tempeste estive. E, a proposito di stagioni, ringrazio che questa primavera sia così uggiosa e piovosa, a Milano, in questi giorni. Tempo perfetto per godersi Thicker Blood, in conclusione. Ballata evocata per il palco del Roadhouse, lassù a Twin Peaks. Pare prima emergere tra nebbie badalamentiane, poi resta sospesa tra atmosfere dark mediterranee. Riprende il suo incedere, rocciosa, poi si riperde nuovamente, definitivamente tra gli echi delle pareti di un labirinto sonoro gotico. Infine sbotta con un finale burzumiano che ogni volta fa partire la ola qui da noi in redazione.

Già, perché in redazione sta piacendo a molti, anche insospettabili. Maggiore concisione, concretezza e vestiti anni ’80, particolarmente di moda. Ha le carte per piacere a molte più persone del solito, The Spin. Al fan del doom, del cantautorato goticheggiante contemporaneo, pure agli estimatori del gotico anni ’80 e di quello anni ’90. Ai rocker più classici. Dovessero aumentare anche i detrattori, con l’ampliamento della platea, non sarebbe colpa delle canzoni di The Spin, che non mostrano il fianco a chi, magari, aveva avuto da ridire sui precedenti. Per gli estimatori della prima ora, o anche per tutti quelli che si sono aggiunti ad ogni capitolo nuovo, non è nemmeno il caso di stupirsi che non ne abbiano ancora sbagliata mezza. Sempre rilanciando, in avanti o con una mossa da cavallo. O con un un ritorno circolare. Ancora imprendibili, i Messa. E ancora una volta non so dire se l’ultimo uscito è il loro disco migliore in assoluto, ma non mi meraviglierei se vi restasse nello stereo tanto, ma tanto a lungo. Farà il botto, spero. Sicuro hanno altre sette canzoni che dal vivo promettono di rendere ancora meglio. Occhio che al prossimo tour in America non ce li restituiscono mica. (Lorenzo Centini)


orecchiabilissimo senza mai essere banale. discone
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Bene, se non benissimo i primi tre brani. Quelli più recenti e marchiati post-punk.
Immolation non mi fa impazzire (discreta Reveal), mentre The Dress e Thicker Blood, per me brani avanzati dalle sessioni del precedente album, non mi piacciono proprio. Non gli appartiene più sta dimensione, suona come una forzatura. Pur se arrangiati bene, eh. Ovvio. Non so se li hanno inseriti per dare un colpo al cerchio e uno alla botte o per mancanza di tempo. Il successo gli è esploso tra le mani e credo non se lo aspettassero manco loro.
In definitiva a me sembra un disco di transizione. Se avranno più coraggio in futuro non saranno più una band metal, comunque.
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Sta di fatto che ad ogni uscita di metal ( o doom) c’è n’è sempre meno e non lo dico come fosse una cosa essenzialmente negativa. Sicuramente sanno il fatto loro , suonano bene ed hanno riferimenti culturali di un certo spessore , peccato che recensioni come questa faranno aumentare la loro propensione all’elitarismo , chissà forse il retaggio black metal pesa più di quello punk/hc.
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Mi permetto umilmente di riassumere, brutalmente, l’ottima e sentita recensione.
Anche stavolta, ancora una volta, i Messa ci hanno sorpresi in positivo, facendo, ancora una volta, il cazzo che gli pare.
Cosa che gli viene sempre dannatamente bene.
Quel finale di disco, signora mia, che ciliegina.
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Lo sto ascoltando a ripetizione ma nonostante The Dress e At Horse mi hanno gasato e non poco, qualcosa continua a non tornarmi. Eppure è tutto perfetto, a partire dai suoni, sporchi e dinamici allo stesso tempo, ma i brani sono forse troppo semplici e non ti lasciano quel senso di meraviglia quando li ascolti. Quando ho sentito per la prima volta Feast For Water mi è caduta la mascella per lo stupore. Cmq per me si meritano tutto il successo che hanno.
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Come mai avevano annullato lo show di Lucca di spalla a Lindemann?
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