Il disco maledetto del death metal americano: INFESTER – To the Depths, in Degradation

A metà anni ’90 lo scettro del male fu ceduto al black norvegese da un death americano che aveva ormai superato il picco e si avviava a una lenta scomparsa dai radar che sarebbe durata fino ai primi anni duemila. Covenant e Tomb of the Mutilated avevano fissato standard di estremismo, sonoro e filosofico, così elevati che nemmeno i loro autori avrebbero più tentato di riavvicinarvisi. Il gusto delle riviste di riferimento cambiò rotta in modo brusco. Sembrava che tutti volessero ascoltare solo metallo nero e gruppi melodici scandinavi. Opere di Immolation e Incantation che oggi consideriamo piccoli classici all’epoca venivano trattate con sufficienza se non stroncate senza pietà, perché “era sempre la solita roba”. Era un periodo in cui le mode cambiavano a un ritmo tale che bastava poco tempo per apparire obsoleti. Insomma, il 21 dicembre del 1994 non fu la data d’uscita più propizia possibile per questo primo e unico Lp degli Infester, oscura formazione di Seattle che sarebbe sparita nel nulla subito dopo, avvolta da un’aura sinistra che avrebbe conferito a To the Depths, in Degradation una fama da disco maledetto, sorretta dalla materia sonora malata e inquietante che lo compone. 

To the Depths, in Degradation è una delle creature più perturbanti e inclassificabili partorite dal sottobosco estremo statunitense. La matrice è un death/doom cupissimo che prende però direzioni imprevedibili. Ci sono passaggi che paiono tentativi di techno-death frenati dall’inesperienza tecnica, la stessa sensazione che danno alcuni momenti di The Red in the Sky Is Ours. Stiamo parlando di un lavoro inciso da giovanissimi. Jason, il cantante e chitarrista, e Todd, il bassista e tastierista, erano ancora minorenni. Il batterista Dario Derna, l’unico che poi avrebbe continuato a suonare, era già su buoni livelli per un diciottenne. Doveva aver studiato e possedere almeno un’infarinatura di jazz. Le mutevoli, ma sempre azzeccate, dinamiche della batteria rendono ancora più eccentrica una scrittura che gli stessi musicisti ammisero fosse stata influenzata dall’ingente consumo di droga, sostanze psichedeliche in particolare.

Nei primi tre minuti del pezzo d’apertura, che dà il titolo all’album, succede di tutto. Veniamo presto scaraventati in un incubo senza via d’uscita. Un avvio cadenzato e insinuante, uno stop’n’go con un basso corposo e ruvido, protagonista nei numerosi stacchi, una sfuriata grind, un bizzarro riff obliquo che sembra sfuggire al controllo dell’esecutore, quindi la prima apparizione di quelle tastiere lugubri e grevi che danno un contributo determinante a un’atmosfera da film dell’orrore che, con la giusta disposizione, può suscitare brividi veri. E sono le tastiere a dettare l’incedere di tetre cavalcate verso l’abisso come Braded into Palsy. Quando scrissi nella chat con i lettori su Telegram che avevo in cantiere un pezzo sugli Infester, qualcuno li ricordò come “i Mayhem che suonavano i Cannibal Corpse”. O viceversa, non ricordo bene. In ogni caso, non mi viene un modo migliore per descrivere pezzi come Chamber of Reunion o A Viscidy Slippery Secretion. Su Mephetic Exhumation sembra invece di ascoltare i Killing Joke che suonano death metal. Nel finale il minimalismo punk prende il sopravvento. Era la libertà creativa delle formazioni periferiche, lontane dal canone di Tampa o di New York.

Non si è mai capito bene perché e come si sciolsero. Il disco fu accolto male a prescindere a causa della presenza di una svastica nel libretto. Un paio di testi furono accusati di razzismo. Ingenue provocazioni giovanili, avrebbero commentato gli ex membri nelle rarissime interviste rilasciate in seguito, che furono forse fatali a un gruppo irregolare e originalissimo, già di suo capitato in una congiuntura storica sfavorevole. Era il dicembre del ’94 e la musica degli Infester non interessava più quasi a nessuno. All’epoca la nota testata di riferimento gli mise il punteggio più basso disponibile. Oggi se ne parla, giustamente, come di un culto da rivalutare e c’è chi lo ritiene un capolavoro. Un destino simile a quello di Cannibal Holocaust, insomma. 

Dario si trasferì in California e si tolse più di una soddisfazione. Evoken, Drawn and Quartered, Funebrarum e Abazagorath tra i gruppi che lo hanno visto dietro le pelli. Todd e Jason, che per un po’ avevano militato anche nei delicatissimi Meat Shits, sparirono dalle scene. (Ciccio Russo)

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