Avere vent’anni: LOW – The Great Destroyer

Fa male parlare dei Low al passato. Lo è da un punto di vista umano, perché la scomparsa di Mimi Parker, “metà” della band sia sotto un punto di vista musicale che personale (era la moglie di Alan Sparhawk), è stata un’orribile notizia, e lo è per quello che la band di Duluth ha rappresentato nel panorama alternativo degli ultimi trent’anni. Perché, a partire da quel pazzesco esordio di I Could Live in Hope, i Nostri hanno pubblicato dischi sempre di ottima fattura, ma soprattutto non accostabili a nessun altro gruppo e senza mai ripetersi davvero. Perché, se le influenze sono sempre state presenti nel sound dei Low, dall’iniziale “slowcore” (o sadcore) che richiamava Codeine e Cowboys Junkies, basta scorrere la loro discografia per comprendere quanto si siano spostati con personalità, fluidità e naturalezza tra generi e paesaggi sonori difformi senza mai smettere di essere riconoscibili. Se dischi come Things We Lost in The Fire e Double Negative sono totalmente diversi e, apparentemente, hanno poco da spartire con lavori come C’mon o The Invisible Way, in realtà c’è sempre un minimo comun denominatore. Lo si ritrova, infatti, in quei chiaroscuri, in quei contrasti emozionali di cui avevo parlato a proposito dell’ultimo – ahimè – album degli americani e che si ritrova, in parte, anche nel solista di Alan Sparhawk dell’anno scorso, in cui ha affrontato il lutto per la perdita della moglie mettendo in contrasto il dolore con filtri vocali che hanno fatto tanto discutere. E lo si trova anche nel festeggiato del mese, questo The Great Destroyer, uscito in un periodo particolarmente cupo per la storia americana contemporanea e che inaugura una fase più rock (e in parte pop) dei Low, in cui si fanno strada influenze più classiche (da Neil Young ai Velvet Underground, già presenti in passato soprattutto a livello ritmico). Una svolta che portò un maggiore successo commerciale (complice anche il passaggio a Sub Pop) e che a tanti, me compreso, all’epoca fece un po’ storcere il naso. Ma ci sbagliavamo di grosso. Perché non solo The Great Destroyer era fin da subito il solito ottimo album dei Low, ma lo è diventato ancor di più con il passare del tempo. Parliamo di un disco che riesce a coniugare alcune caratteristiche del passato (vedi brani come Everybody’s Song, l’iniziale Monkey e la splendida Silver Rider) con un approccio più vicino alla canzone “tradizionale” ma sempre filtrato dal punto di vista unico della band di Duluth. Prendete California, per esempio, pezzo solare ed estremamente orecchiabile: potrebbe quasi perdersi nel contesto di un album del genere, ma grazie a quei contrasti di cui sopra, a quel lirismo unico frutto dell’unione delle voci di Sparhawk e Parker, diventa un gioiello. E se parliamo di lirismo come non citare un pezzo come Cue The Strings, inizialmente solo voce(i) e archi sintetici à-la Badalamenti su cui si innestano poi lievi ritmiche, solo per creare un contrappunto sonoro, un brano a metà strada tra mistico e dream pop. E se a livello compositivo, in questa fase più tradizionale della loro carriera, i Low riusciranno a fare ancora di meglio successivamente con il summenzionato C’mon, a livello di suoni siamo già nella perfezione assoluta: un suono pieno che sa essere, al tempo stesso, essenziale e ricco, rappresentando un unicum nella produzione contemporanea. Tutti questi fattori (suoni, eccellenza compositiva, lirismo, passato e futuro che si rincorrono) convergono in quello che, per chi scrive, è tra i migliori brani in assoluto dei nostri, When I Go Deaf, che inizialmente sembra uscire da Trust, con alcuni elementi che portano anche alla mente i primi lavori del gruppo e che poi si apre in un crescendo elettrico di neilyoungiana memoria a dir poco commovente, così come il suo testo. Un grandissimo lavoro, che pur non inserendosi, per chi scrive, tra i loro capolavori assoluti (che sono almeno quattro), rappresenta una fulgida manifestazione di quanto i Low fossero e saranno sempre un qualcosa di irripetibile nel panorama alternativo. E di quanto ci mancheranno. (L’Azzeccagarbugli)
When I go deaf / I won’t even mind / Yeah, I’ll be all right / I’ll be just fine / I’ll stay out all night / Looking at the sky / I’ll still have my sight / Yeah, I’ll still have my eyes / And we will make love / We won’t have to fight / We won’t have to speak / And we won’t have to lie / And I’ll stop writing songs / Stop scratching out lines / I won’t have to fake/ And it won’t have to rhyme

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