Un bacio a mezzanotte: intervista ai PONTE DEL DIAVOLO

Come avrete notato dalla mia perdurante latitanza su questi schermi, dire che negli ultimi mesi (facciamo un paio d’anni) non ho avuto molto tempo per scrivere sarebbe un pallido eufemismo. Questa intervista è stata realizzata lo scorso aprile, subito dopo l’eccellente esibizione dei Ponte del Diavolo al Tube Cult, e il ritardo con cui viene diffusa ci consente quantomeno di tracciare il bilancio di un anno che è stato straordinario per la band torinese, iniziato con la pubblicazione dell’Lp di debutto per una delle più importanti etichette europee e prossimo a concludersi con l’uscita, il 9 dicembre, su Time to Kill di una raccolta che include i tre Ep pubblicati prima di Fire Blades from the Tomb, disco che tra qualche settimana troverete in molte delle nostre playlist di fine anno. È notizia recente che il gruppo eseguirà integralmente l’album al prossimo Roadburn, quasi abbia già la statura di un classico moderno. Se non è una consacrazione questa…

A rispondermi è stato il gruppo al gran completo e, avendo registrato l’intervista solo in audio, eviterò di attribuire le risposte a singoli membri per non rischiare di confonderli tra loro. Alla conversazione ha contribuito con un paio di domande anche il fiero e potente Verino, dall’altrettanto fiera e potente chat dei lettori alla quale, se non lo avete già fatto, siete invitati a iscrivervi prima di subito, come direbbe il Carrozzi.

Come siete arrivati subito a Season of Mist per l’Lp di esordio?

“Abbastanza presto ma non subito. Ci siamo arrivati ​​perché uno dei ragazzi della Season era un nostro fan. Ci hanno ascoltati, abbiamo catturato la loro attenzione, ci hanno contattati loro; mentre suonavamo in Danimarca ci ha scritto Michael e da lì è partita questa avventura… Sono molto contento di Season of Mist. Sono super professionali, super corretti. Sono molto bravi. Molto veloci”.

“E poi ci mettono anche passione. Non si tratta solo di inviare l’e-mail. Sono ragazzi appassionati di metal come noi. Ho dovuto avere a che fare con etichette mille volte più piccole con molta meno passione. È incredibile. Dovrebbe essere il contrario”.

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I Ponte del Diavolo al Tube Cult

E degli Ep quale nello specifico ha catturato l’attenzione dell’etichetta?

“Non ce l’ha detto…”

“Tutti e tre. Il grafico se li era comprati tutti e tre. Ha detto solo che l’ultimo era registrato di merda”.

“È andata così, lo volevamo lo-fi…”

Dagli all’Ep all’Lp c’è un cambiamento di suono abbastanza netto. Quanto c’è di scelta razionale? All’inizio eravate molto più punk.

“È stato un corso naturale e il budget è stato più alto. Non abbiamo fatto però gli Ep lo-fi solo per non spendere molto. Volevamo una registrazione in presa diretta e ci è quindi costata meno, forse avremmo fatto in quel modo anche se avessimo avuto più budget”.

Questo legame con la scena hardcore di Torino è qualcosa che ci siamo immaginati noi nella recensione o è qualcosa che sentite nelle vostre radici?

“Io personalmente non ho mai approfondito l’hardcore, sono passata subito al post punk, ma i Nerorgasmo sono stati una delle mie band preferite sin da quando avevo 15 anni”.

“A Torino, vuoi o non vuoi, quell’aria lì la respiri, in un certo modo ti ci scontri”.

“Sì, anche se non hai quegli ascolti esiste comunque un suono torinese, che è un po’ sporchino, ma non lo facciamo apposta”.

“Tra l’altro mi è capitato di riascoltare Un bacio a mezzanotte dopo averla registrata e di dirmi, cazzo, sembrano i Nerorgasmo, ma non era una cosa voluta. Torino ha quel tipo di cultura e noi abbiamo 40 anni, siamo stati in mezzo a quelle storie per un po’”.

“Più che altro abbiamo frequentato molto la scena fisicamente. Non eravamo chiusi in una stanzetta ad ascoltare solo dischi di gruppi norvegesi. Abbiamo frequentato la scena e la scena ci ha influenzato”.

Ponte-del-Diavolo-band-2023

Quindi ci sono un sound e uno spirito torinese che, se inizi a suonare a Torino, fanno parte del tuo retroterra, lo voglia o no.

“Sì, ma involontariamente. Fa parte delle radici musicali del territorio. Andando a vedere tante band così, ne sei influenzato. Quindi c’è, non è voluto, ma c’è”.

Andiamo sugli stereotipi beceri: la fama occulta di Torino è per voi marketing involontario?

“(risate generali) Sì, anche un po’ volontario. I temi che trattiamo sono macro, quindi non entriamo nello specifico dei questa o quella componente esoterica, che sarebbe noiosissimo. Però, alla fine, noi eravamo tutti o darkettoni o metallari a Torino, i luoghi erano quelli, gli argomenti erano quelli. Torino, comunque, gira attorno alla magia. L’aria magica di Torino è qualcosa che sentiamo davvero. Poi la magia significa mille cose, ognuno poi la interpreta a modo suo. Puoi essere ateo e laico ma essere attratto da quello che è occulto, nel senso di quel che non vedi e non conosci del tuo sé interiore, non necessariamente una divinità, un Dio esterno. Atei sì, ma abbiamo due bassi perché cerchiamo di andare sotto, oltre”.

Ecco, come è nata la cosa dei due bassi?

“È sempre stata un’idea di Elena…”

“Mi piaceva questa idea. Facciamo una band con due bassi? Ed è nato il progetto. Abbiamo preso delle misure per non incrociare troppo le frequenze basse. Non era facile ma ha funzionato”.

“Pensavamo potesse sia essere figo che attirare l’attenzione. E ci è riuscito”.

Ponte del Diavolo

I Ponte del Diavolo al Tube Cult

Il basso è strumento lunare e ctonio.

“È il mio strumento preferito. Poi non so come suonarlo. Ascolto molta wave e lì è il basso che fa la canzone. Ora mi sono resa conto che non ho mai ascoltato molto black metal perché non ci sono le frequenze basse e questa cosa non la sopporto”.

Demon e Covenant sono pezzi molto lineari, che sembrano essere stati concepiti come singoli. Un brano come La Razza è servito come gancio al passato, per mostrare anche questo lato del vostro suono a chi non vi conosceva prima? 

“No, hai già pensato troppo. Covenant è stata scritta prima dell’offerta di Seasons. È il pezzo più paraculo del disco, sì, ma ci eravamo solo detti ‘ora facciamo una traccia un po’ più wave’, non ‘ora facciamo un singolo’ o altro”.

“Non sono in grado di scrivere un singolo pensandolo come tale. Ogni volta che provo a prefissarmi un obiettivo e scrivere una canzone di un certo tipo, fa schifo. Entro in crisi dopo averci lavorato due mesi, poi butto via quello che volevo fare e torno a fare quello che mi viene”.

“Eravamo un po’ di fretta. Avevamo anche un po’ di tensione perché Season of Mist ci aveva dato una scadenza di sei mesi dalla firma alla consegna. In quattro mesi abbiamo lavorato un po’ su tutto e registrato. E poi abbiamo fatto il mix e il mastering con un po’ più di margine. Quindi abbiamo fatto le cose molto di corsa ed il disco è venuto spontaneo, non pianificato”.

“Sì, abbiamo solo messo un po’ di pepe. Ho l’impressione che Demon e Covenant suonino effettivamente come singoli”.

“Sono pop”.

“Sì, ma, insomma, non ci avevamo pensato all’inizio. Abbiamo deciso dopo, riascoltando tutto, che sarebbero stati i singoli”.

chitarrista_PDd

Lorenzo ha insistito nella recensione sul fatto che oggi esista un suono italiano. C’è un suono italiano? 

“Scusa, ma cos’è il suono italiano? Voglio dire, cosa intendi per suono italiano?”

Pensa al cinema. Allo spaghetti western. Era una cosa americana. L’abbiamo presa, e da un certo punto di vista l’abbiamo fatta meglio. L’abbiamo fatta in un modo estremamente riconoscibile.

“Ah, sì, sì, sì. Sono totalmente d’accordo”.

“Sì, è vero, è vero. C’è qualcosa di simile anche nel metal. All’estero la gente ci collega ai film e ai dischi di culto italiani. Fulci, Argento, il Prog… Fino a poco tempo fa se eri italiano non ti cagavano. Ora è quasi un valore aggiunto. Scegli un nome in italiano e la butti sull’occulto”.

A proposito, il nome come è venuto fuori?

“È successo che, giunto il momento in cui dovevamo scegliere il nome, il nostro primo batterista, a un certo punto se ne uscì con Bridge of the Devil, in inglese, che fa schifo. Dopodiché ho avuto il flash: Ponte del Diavolo! Ragazzi, chiamiamoci così!.”

Ed è un Ponte del diavolo specifico? Ce ne sono tanti…

“Sì, quello di Lanzo. Il vecchio batterista lo aveva proposto per quello. Fa parte dell’identità della zona”.

elena_camusso

Tornando al discorso di prima, un altro motivo per cui penso ai film italiani degli anni ’70 è che fu l’ultima volta che riuscimmo a costruire un immaginario. Mi sembra che la differenza tra l’attuale scena metal italiana e quella degli anni ’90, dove comunque c’erano buone band, è che ora essere italiani non è più un handicap, anzi. Questo perché ora un immaginario c’è. 

“Non c’è dubbio che ci sia questa ascesa internazionale dell’Italia nel mondo del metal, è innegabile. Ma non saprei perché è successo”.

“Tra i vari commenti sotto ai nostri video su YouTube, qualcuno ha detto che quando gli italiani fanno doom lo fanno con stile. Quindi, non so, forse riconoscono una caratteristica un po’ diversa dal doom suonato all’estero.

“Forse è solo cambiata la tendenza, nella musica e nelle band la moda va molto veloce. Non so se siamo migliorati noi o se ci hanno dato più possibilità. Perché il confine è labile”.

Qua siamo tra quarantenni. Perché la generazione degli ascoltatori trentenni è saltata? E perché ora si sono riaffacciati i ragazzini? Come vedete l’evoluzione del vostro pubblico, in generale?

“È bello che siano tornati, mi esalta tantissimo. Ho organizzato il concerto dei Marduk a Torino (qua parla Elena, che è anche promoter, nda) e c’erano un sacco di ventenni con il face painting, caldissimi, tantissimi, ed ero molto felice. Ultimamente faccio due pubblicità diverse per le band che porto: una per il pubblico dai 30 ai 60 anni e una specifica dai 18 ai 30. E vengono un sacco di ragazzini. Vengono i ventenni, i quarantenni, i cinquantenni… I trentenni no”.

“Infatti, non ce ne sono, c’è stato un buco di dieci anni dove stava andando tutto a puttane. Ora è ricominciato tutto. Andavano anche nel metal i dischi di plastica, ora si torna alla roba suonata. Anche stasera c’erano ragazzi giovani. Prima vedevamo solo ultraquarantenni”.

“Penso che in Italia il boom della trap avesse spostato l’interesse dalla musica suonata. Anche alle feste c’era molta elettronica. I Måneskin hanno aiutato molto perché hanno mostrato ai ragazzi che si può suonare la chitarra ed essere fighi. E così hai rivisto i giovanissimi con il basso sulle spalle e così via. C’è un’altra cosa da considerare: i figli dei metallari quarantenni ultimamente si sono avvicinati a noi. Questa cosa mi spacca il cervello, è bellissima, mi piace molto. I genitori ascoltano metal e i figli sono abituati a quei suoni. Mi scrivono madri disperate perché i loro bambini vogliono andare a scuola con la maglietta dei Ponte del Diavolo”. (Ciccio Russo)

7 commenti

  • Avatar di Cpt. Impallo

    I trentenni non si vedono ai concerti perché la generazione appartenente alla seconda mandata dei millennial, diciamo i nati nel 1990/1996, si è sempre crogiolata in un patetico piagnisteo che li ha portati, passati i venticinque, a considerarsi già vecchi, stanchissimi e annoiati da tutto; si sono chiusi in casa a guardarsi le loro serie tv, plaid e tisanina pronti, e la sola idea di uscire il venerdì sera dopo il lavoro, a vedersi un concerto in un club, li ammazza. Ho trentacinque anni, parlo della mia generazione, non c’è esagerazione nonnistica in quel che dico, è così. Ve lo dico fin da ora, preparatevi a vedere crisi di mezza età epocali fra una quindicina d’anni, se e quando si romperanno le palle della vita da pensionati precoci.

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    • Avatar di Ciccio Russo

      È una sensazione che ho avuto anch’io. Mi era rimasto molto impresso un video di The Jackal uscito qualche anno fa su uno che compiva trent’anni e si disperava perché si sentiva vecchissimo e guardava i ragazzini con invidia e rimpianto. Mi era rimasto impresso perché evidentemente decine di migliaia di persone ci si identificavano. Noi EARLY MILLENNIAL quando non XENNIAL (sono dell’81) a trent’anni pensavamo ‘oh, che bello che non sono più scemo come a vent’anni ma sono ancora giovane e a cazzo durissimo’ e tendevamo a guardare i ventenni con sussiego e superiorità. Secondo te da che deriva questo crogiolarsi nel piagnisteo?

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      • Avatar di Cpt. Impallo

        È un discorso complesso, diciamo che è una caratteristica generazionale intrinseca. Ho due possibili risposte, una seria e una faceta, complementari fra loro:

        -Risposta seria: la mia è una generazione cresciuta nella bambagia che ha visto togliersi il tappeto sotto i piedi dalla crisi del 2008. Gli anni ’90, per un bambino, erano un paradiso felice dove c’erano soldi e pappa scodellata per tutti. Arrivati alla maturità ci aspettavamo di trovare il bengodi dei nostri genitori e abbiamo trovato macerie e porte chiuse, senza essere stati svezzati abbastanza da affrontare tali avversità. Non avendo abbastanza spina dorsale per fare di necessità virtù, abbiamo iniziato a piangerci addosso al grido di NON È GIUSTO UFFA.

        -Risposta faceta: è colpa di quel cazzo di indie lagnone che andava di moda 15 anni fa. Quella wave di cantautorato ha intercettato lo zeitgeist, gliene va dato atto, ma invece di dar voce alla rabbia di una generazione defraudata del futuro ha cullato i millennial in un autocompatimento sempre più ombelicale, rendendo il lagnarsi cool e il non provarci uno stile di vita. Cazzo, nel 2012 vedevi sedicenni vestiti come vecchi deprimersi ascoltando canzoni che avrebbero tolto la gioia di vivere pure al dio Bacco; era un segnale preoccupante. Chiamami retrogrado, ma secondo me i sedicenni dovrebbero PER LEGGE ascoltare solo gli Ska-P e/o i Manowar, e pensare solo a stroncarsi di canne e tentare invano di scopare.

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      • Avatar di Ciccio Russo

        D’accordissimo sulla risposta faceta. Per quanto riguarda quella seria, noi quarantenni attuali i crac Lehman e la legge Biagi ce li siamo ritrovati addosso a 25 anni, quando stavamo entrando nel mondo del lavoro e nel mondo adulto in generale ma forse se la botta la prendi dritta in faccia (aggiungiamo il G8 di Genova sul cui impatto generazionale ci sarebbero pure troppe cose da dire) la reazione è diversa.

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  • Avatar di Old Roger

    Concordo.Io sono del Gen X (1978) adesso mi son calmato , ma fino a qualche anno fa , uscivo dal lavoro : casa , doccia , cena e alle 9 ero in pub , pinta in mano è non era raro ci scopassero fuori da locale alle 3/4 del mattino…idem il sabato , o appunto concerto o serata…la.domenica era il giorno di scacco/riposo&recupero…Tisane non ne bevo e Netflix va bene nelle serate feriali…. capiscono stare a casetta , ma se non esco ad una certa divento idrofobo…..l’ora d’aria la fanno anche i carcerati.

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    • Avatar di griffar

      Mah, dipende anche dalla vita che hai vissuto. Io (classe ’72) ho fatto il cuoco per 25 anni, ed a casa mia non c’ero mai. Sabati, domeniche, feste, ferie d’estate mai e poi mai (le ho quasi sempre fatte a gennaio, quando mi capitava di farle e ti assicuro è successo più di un anno di saltarle). Nonostante ciò mi sono divertito come un matto, ho assistito a tanti di quei concerti che nemmeno saprei dire quanti ed oggi, che pure ho cambiato lavoro cadendo dalla padella alla brace, Onestamente di fare la vita che ho fatto fino ai 40 anni non ne ho più voglia e neanche ce la farei fisicamente. Fino ai 40 dormire era un optional, dopo i 45 se poco poco mi rilasso con musica in cuffia al secondo pezzo sono già nel mondo dei sogni. Ogni cosa a suo tempo, ma questo a mio modo di vedere è normale. La generazione dopo la mia non ha fatto altrettanto? I tempi cambiano. Non ci si può fare niente.

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  • Avatar di VIDLON

    No scusa, il basso nel black metal c’è, basta ascoltare la musica con un un minimo di impianto. Un po’ di audiofilia nel senso di mettersi nel posto giusto e fermi ad ascoltare e non camminare in giro per la casa. Alla fine è musica d’atmosfera, merita tutta la nostra concentrazione, anche solo un brano al giorno se non abbiamo tempo. A 49 anni, la nostra musica mi è rimasta l’unica cosa da sacralizzare. Dobbiamo tornare alla storia che il basso nei Pantera non si sentiva perché li si ascoltava in macchina da cassette duplicate?

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