E il naufragar m’è dolce in questo gothic doom: WITNESSES e AIWAZ

Due band gothic doom che tenevo sott’occhio da tempo e due fraintendimenti che me ne stavano facendo perdere le uscite. Due musicisti-tuttofare che collaborano con due delle migliori voci nel circuito doom underground in circolazione. Due cantanti non proprio più giovanissimi. Parliamo di Simon Bibby (My Silent Wake, Thy Listless Heart) e Arkadius Kurek (Wheel), oggi dietro al microfono rispettivamente con WITNESSES e Aiwaz. Partiamo dai primi, in realtà one man band di Greg Schwan di New York, ex While Heaven Wept, progetto eterogeneo tra doom e ambient e tutte quelle cose che non sono doom ma che se lo ritrovano come suffisso o prefisso, perché ora vanno definizioni come doomgaze, post-doom e via così (e a volte ci sguazzo pure io, sapete). Comunque, me l’ero segnato il nome. Poi mi capita una foto promozionale col pizzetto canuto e gli occhiali riconoscibili di Simon Bibby e inizialmente non collego, perché lui è inglese, cazzo c’entra. Perché sono ancora rimasto ai tempi in cui magari i musicisti si chiudevano fisicamente in una stanza per scrivere la musica. Mah, il passato. Oggi la musica viaggia via mail.

Quindi niente, il nuovo disco di/dei Witnesses ha Simon Bibby alla voce, riconoscibilissimo, anche se lo conosciamo da poco (io, per lo meno). E fa quel che sa fare, voce pulita, nitida, dolente. Molto bravo, se chiedete a me. Non mi convincono invece l’amalgama e il suono di questo disco qui, che si chiama Joy. Che forse è un concept sulla gioia, anche se dalla copertina non lo direste, con la pulzella rinascimentale dolcemente appisolata e, sopra di lei, fiori da sepolcro. L’attacco è molto suggestivo, con Joy (Like a River), atmosferica e perfettamente nelle corde del cantante inglese. Qualche riff più duro sotto, anticipo di quello che succede più in là con Joy (Beyond the Sound of My Voice), dall’attacco quasi death. Ma che poi si dilata tra paesaggi disperati ma meno heavy, in termini di suono. Merita qualche ascolto e un po’ di predisposizione, un disco così. Ma anche approfondendo mi dà l’impressione di una composizione “a turno”: toh, ecco la base strumentale, cantaci sopra. Non so se mi spiego. Metteteci dei suoni freddi, che sanno di registrazione in cameretta (non come si intendeva un tempo, suoni rozzi presi da microfono da due soldi, al contrario, suoni pulitissimi, processati da plugin e schede audio), non riesco a entrare del tutto in sintonia con i brani. Anche se alcune atmosfere ben suggestive lo sono e anche se Bibby a me piace davvero tanto. Meglio ascoltarlo nelle sue composizioni, però.

Altro discorso gli AIWAZ, che sono tedeschi, e non sono gli Aiwass, che sono americani e mi sono perso l’anno scorso. Ero convinto di recuperarli ora, ma non avevo dato il giusto peso alla zeta alla fine. E sorpresa: ci trovo dentro proprio Arkadius Kurek, ugola grandiosa e interprete grandioso. Non un’ospitata, ma un duo. L’altro, Timo Maischatz, nessuna esperienza pregressa su Metal Archives, suona tutto. Entrambi germanici, per cui mi piace pensare che, anche non vivessero proprio vicino, almeno uno dei due s’è preso la briga di prendere l’autobahn per andare a fare le prove insieme. Credo l’abbiano fatto, lo direi dalla composizione, dal dialogo vero tra le parti strumentali e le melodie, quelle di Kurek, che spero abbiate presente dopo plurimi ascolti compulsivi di Preserved in Time. Stesse strategie, come i suoi stessi controcanti, come i saliscendi, come i finali potenti su note alte (no falsetto). Qua il nostro non evoca tanto epicità, ma una dolce mestizia, la malinconia di una passeggiata al cimitero a guardare i teschi di marmo e i cipressi e i fiori che appassiscono.

In copertina un’altra fanciulla, stavolta in atteggiamento intimo con un teschio, opera dello stesso Kurek. Maischatz sorprendente, ci mette sotto una costruzione di doom gotico, un cenotafio pieno di dettagli ed equilibrio, con qualche suggestione dagli Empyrium più cameristici (non giudicatemi se vi dico che a un certo punto ero in fissa con The Turn of the Tides), o persino da certe atmosfere che vi aspettereste da un disco Prophecy (vaghi, vaghissimi richiami a certi arpeggi…). Ma il corpo è doom, doom gotico, qualche pietra growl a solidificare alla base la costruzione del monumento funebre. Ah, il titolo è Darrkh… It is!, non ne conosco il significato ed è forse l’unica cosa che non mi convince appieno, di questo disco qui. Che negli oltre dieci minuti dell’apertura omonima dispiega già tutte le possibilità del duo. Che pure sorprende già subito dopo, con l’attacco per chitarre acustiche, una specie di mandolino ed archi (Empyrium meets… R.E.M.?) della successiva The Ghost That Once Was I, che prima di uno sviluppo più ortodosso e di un finale emotivo condotto da Kurek. Ora, non voglio affatto sminuire l’identità degli Aiwaz, ma le melodie vocali sono esattamente quelle di Preserved In Time. Paiono take alternative con arrangiamenti ben diversi. Ripeto, non voglio sminuire perché il risultato, per larghi tratti, è ammaliante, assolutamente degno della band madre, con qualche vetta di meraviglia. Meraviglia mesta, eh, occhio. Non c’è da sfoderare uno spadone, qua, semmai da chinarsi per sentire il profumo residuo di una rosa i cui petali appassiti stanno cadendo uno ad uno su un letto di muschio e marmo bianco, lucido. (Lorenzo Centini)

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