Parliamo di cose tristi: THE CURE – Songs of a Lost World

Parlare del nuovo Cure è per me una questione estremamente personale. Lo è perché gli inglesi sono stati uno dei primi gruppi che ho iniziato ad ascoltare durante i primissimi anni della preadolescenza, quando, se si è fortunati, si iniziano a fare scoperte formative che nel bene e nel male ti segnano per tutta la vita. Mi sono approcciato ai Cure prima che uscisse Wild Mood Swings – che reputo tutt’ora il peggiore e più indifendibile album dei Nostri – scoprendo quella meraviglia chiamata Wish e andando a ritroso nel tempo, sentendo incredibilmente vicini alcuni dei testi di Smith e, in generale, avvertendo una forte affinità con l’indole stessa del gruppo, nonostante i suoi tanti cambi di rotta. Accettandoli, non sempre apprezzandoli e rimanendo comunque lucido nei giudizi nei loro confronti, non essendomi mai riuscito ad esaltare per il tanto decantato – e comunque buono – Bloodflowers, avendo trovato appena sufficiente il penultimo 4:13 The Dream e, al contrario, avendo sempre ritenuto sottovalutato l’esperimento – soprattutto a livello di suoni – dell’omonimo, tanto odiato dallo stesso Smith.

E ora, dopo sedici anni dall’ultima pubblicazione, dopo la splendida anticipazione di Alone, ci troviamo di fronte a questo Songs of a Lost World. Che esce in un momento, in un anno per me importante e a pochi giorni dal mio quarantesimo compleanno – e che ho ricevuto a sorpresa nel migliore e più sentito dei modi immaginabili – ed è un album in cui anche Robert Smith, in un certo senso, fa un resoconto di quello che è il suo presente, di quello che è stato e di quello che sarà, e lo fa con una schiettezza che lascia basiti, non ricorrendo a metafore e licenze poetiche come in passato. Sensazioni che, e chiedo scusa per l’eccesso di protagonismo, accrescono quell’affinità, quella familiarità, quel sentire comune che ho sempre avvertito con la musica dei Cure e con i testi di Smith in un modo che mi ha sinceramente sorpreso, per la forza con la quale si sono palesate, e commosso.

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Una commozione che del resto è uno dei sentimenti che più pervade Songs of a Lost World, il quale, tagliamo subito la testa al toro, è con buona probabilità il loro miglior disco dai tempi di Wish e, in generale, un grandissimo album, basato su un’atmosfera unitaria e tematicamente incentrato su una riflessione accorata, a volte cupa, a volte tenera, a volte sofferta sul tempo che passa, come è giusto che sia per un autore (Smith è l’unico compositore e arrangiatore del disco) che va verso i settanta.

This is the end of every song that we sing / The fire burned out to ash and the stars grown dim with tears, recita Smith, citando il poeta Ernest Dowson, in Alone, brano di apertura scritto nel 2019, quando Smith aveva compiuto sessant’anni, un pezzo in cui, come in molti altri degli otto che compongono il disco, il cantato giunge dopo una lunga e giusta intro strumentale. Una canzone estremamente rappresentativa di un lavoro che è connesso a doppio filo con Disintegration, soprattutto a livello musicale, pur non essendo uno stanco e senile clone dell’opera più famosa degli inglesi. Perché se già nel singolo troviamo eco dei synth di Faith, che riverberano anche nell’ottima All I Ever Am, Songs of a Lost World spazia in lungo e in largo nella carriera dei Cure, consentendoci di intravedere i fantasmi di Pornography, percepire alcune strutture figlie di Bloodflowers e, nei suoi pochi momenti di calviniana leggerezza (si fa per dire), qualcosa di Wish.

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Il disco non sorprende per particolari novità nel suono, ma lascia stupefatti per l’intensità e la cifra emozionale dei brani in scaletta. Come nella struggente And Nothing is Forever, brano romantico – sulla scia di Homesick – nella sua costruzione tra un giro di piano di una semplicità disarmante, su cui si erge un muro di archi sintetici (che solo i Cure possono permettersi senza scadere nel kitsch) che fa da ponte al possente basso elettrico di Simon Gallup, estremamente “in prima linea” nell’ottima produzione del disco. Una canzone che parla di una promessa non mantenuta da Smith, che non è riuscito a essere vicino ad un amico sul letto di morte e che cerca una sorta di redenzione attraverso un brano di un candore disarmante, da groppo in gola perenne.

Lo stesso candore che si percepisce anche in un pezzo come I can Never Say Goodbye, dedicato a Richard, fratello maggiore di Smith, che lo ha iniziato al rock, morto in questi ultimi anni come i suoi genitori, in cui, dopo una lunga e (letteralmente) tempestosa intro, Smith tesse una ballata dolcissima, rotta solo da un fragoroso assolo di chitarra, per esprimere il senso di vuoto che avverte da allora nel modo più semplice possibile: “Something wicked this way comes/ To steal away my brother’s life/ I could never say goodbye”.

Un lavoro estremamente cupo (forse quello più oscuro da Disintegration se non da Pornography), che non concede mai davvero momenti di luce. Prendiamo ad esempio i brani più ritmati e spigolosi dell’album, Warsong e Drone:NoDrone: nonostante il ritmo sia più serrato (con uno straordinario Jason Cooper alla batteria), il tenore dei brani è plumbeo, i testi estremamente pessimisti e il loro andamento molto nervoso. Lo stesso dicasi per i pezzi più pop, come il secondo singolo, A Fragile Thing, o la già menzionata All I Ever Am, in cui, soprattutto nel primo caso, nonostante le strutture siano più semplici e i brani più orecchiabili, traspare un afflato malinconico, tanto a livello di liriche (I never thought I’d need to feel regret for all I never was / But all this time alone has left me hurt and sad and lost) quanto nei synth che accompagnano l’inizio e la fine di All I Ever Am

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Perché, alla fine, è proprio la malinconia il sentimento che lega questi otto brani che altro non sono che una sentita riflessione sul “mondo perduto” della giovinezza, e più nello specifico, come dichiarato dallo stesso Smith, degli anni ’70, inaugurati dall’allunaggio del 1969 che prometteva un futuro migliore e che viene espressamente menzionato nella finale Endsong (And I’m outside in the dark / Staring at the blood red moon / Remembering the hopes and dreams I had), forse il capolavoro dell’album, già riproposto in sede live nel 2019, ma che su disco assume un significato e una “sacralità” diversa. Un brano quasi interamente strumentale che chiude circolarmente l’album allo stesso modo di Alone e che si apre sul finale ad una dilaniante presa d’atto di quello “che non è stato” (It’s all gone, it’s all gone, it’s all gone Left alone with nothing at the end of every song).

Un disco importante, che non conosce riempitivi o momenti di stanca e che ha l’unico difetto di essere uscito forse troppo tardi. Ma probabilmente è un ulteriore segno di coerenza per quello che Smith ha voluto raccontarci dopo un lungo silenzio, una rivendicazione di inattualità e di sconforto verso il presente. (L’Azzeccagarbugli)

No hopes, no dreams, no worldNo, I, I don’t belongNo, I don’t belong here

5 commenti

  • Avatar di Bonzo79

    bella recensione, il disco è davvero splendido

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  • Claudio Guglielmi
    Avatar di Claudio Guglielmi

    questo disco mi emoziona tanto e mi fa riflettere,ogni brano e ‘un qualcosa di bello suonato alla grande

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  • Avatar di lucaciuti

    quando i dischi escono con un perché…

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  • Avatar di El Baluba

    Ero parecchio scettico quando ho sentito Alone per la prima volta, sembrava un clone uscito pari pari da “Disintegration”. Poi, riascoltata per bene nel contesto del disco mi ha dato i brividi, estremamente toccante, testo e musica. Probabilmente il resto del disco non è all’altezza dell’opener, però al momento ho voglia di riascoltarlo con molta continuità, e con il mio poco tempo a disposizione per ascoltare musica, è un bel risultato. Peccato per la produzione, che trovo piuttosto fuori luogo per basso e batteria, soprattutto quest’ultima ha suoni e arrangiamenti piuttosto bruttini…

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  • Avatar di sepcuccio

    Per me il loro disco piu’ bello, tra tutti.

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