Persi in un oceano cosmico e malevolo: HAIL SPIRIT NOIR – Fossil Gardens
Bentornati, innanzitutto. Già, perché era da due album che i tessalonicesi sembrava non fossero più loro. Intendiamoci, un artista fa il cazzo che vuole della sua arte, vale pure per la musica, e questo è bene che ci si faccia i conti, tutti. E poi non erano nemmeno brutti, gli ultimi due dischi, specie Mannequins. Non sembravano più loro, però, agli occhi del fan medio (quindi forse io, sì, dai, fan è una parola forte, ma mi piacciono tanto). Com’è, come non è, è finito pure il Covid (finito?) che ha giustificato in lungo e in largo tante divagazioni meno ortodosse di un mucchio di gente. Però ora gli Hail Spirit Noir abbandonano tanto lo space rock quanto la synthwave e tornano al loro vecchio prog un po’ (tanto) black. Un calcolo? Potrebbe anche darsi. Non sono tipi da chissà che vendite, ma se io me li trovassi a suonare vicino casa, ora, mi aspetterei di nuovo le chitarre. Due anni fa forse no e non so se sarei andato. Cazzi miei, sicuro, ma anche un po’ loro, che sicuro arrotondano coi Cd e le magliette vendute in contanti ai concerti. La mia, di maglietta, col demone di Oi Magoi, mostra gli anni che ha e il molto uso che ne ho fatto. Pure in occasioni poco ortodosse. Tipo quando salutavo il sole indossando una maglietta con un demone disegnato, appunto, e scritto a chiare lettere “salve, spirito noir”. Uno scherzo.
Non scherza questo ritorno dei greci, invece. Su una cosa ci siamo già confrontati col lettore Punk Rocker sulla chat Telegram di Metal Skunk (a proposito, ci siete già tutti?): si tratta di un vero ritorno ai primi tre album? Nel senso: lo definireste un disco mediterraneo (se non greco) oppure no? La mia opinione è: non proprio. Mi spiego: nella forma si tratta di sicuro ad un ritorno alla vecchia formula. Black metal con forme progressive o più probabilmente il contrario. Sperimentale in parte, non propriamente oltre. Non ci sento, io, quel profumo (inquietante ma appunto) mediterraneo che avevano i primi tre capitoli. Sembravano molto radicati, quei tre, sapevano di terra e di demoni terreni, storici o parastorici. Si guardavano le stelle, disperatamente, come farebbe un naufrago dal destino segnato, ma dal basso, tra le onde malevoli. Fossil Gardens invece, questo disco qui, fluttua nello spazio. È astrale. E questa è forse l’eredità della sbandata space di Eden in Reverse. Un male? Ovvio che no. Anzi, perché di questo disco qui c’è da essere ben contenti. L’iniziale Starfront Promenade per esempio è una tempesta gelida in faccia. Un freddo strano. Il pezzo è grandioso e dà inizio al viaggio nel migliore dei modi.
Bel viaggio. Forse non così arcano ed ignoto, forse è vero che ne avrebbe potuto comporre uno simile una band proveniente da altri lidi, magari più a nord, perché poi, una volta che sei perso nello Spazio, la Terra la rimpiangi tutta e preferiresti tornare anche nel peggior tugurio piuttosto che restare in balia di terrori cosmici. C’è poco da fare i regionalisti. E comunque intanto, al netto delle suggestioni, Fossil Gardens è un disco ben coeso, avventuroso per tutta la sua durata. Vario perché scritto, e scritto con gusto, non perché ci butta dentro cose a caso. Anzi, per certi versi è il più metal che abbiano composto. Meno divagazioni, chitarre e batteria tese, per quasi tutta la durata. Ci sono i synth, ne hanno sempre avuti, hanno un ruolo decisivo anche se mai propriamente in primo piano. Quasi mai. Per esempio, ce l’hanno nell’ultima canzone, quella che dà il nome al disco e lo conclude in maniera degna dell’apertura e dello svolgimento. Un altro brano freddo, frenetico nella prima parte ma stranamente statico. Poi spazio al silenzio e quegli strani rumori che puoi percepire solo quando il frastuono si arresta. Un momento, se si sentono i rumori forse vuol dire che non siamo più lassù, persi fra le stelle. Forse siamo atterrati su qualche asteroide, chissà come dotato di atmosfera. Oppure siamo tornati sulla Terra. Oppure non ce ne siamo mai allontanati. Forse.
Sicuro però Fossil Gardens è proprio un bel disco e varrebbe la pena smettere di confrontarlo coi tre capolavori iniziali. E per tornare alla domanda che mi ero posto prima: i greci sono tornati alle chitarre distorte e alle grida per calcolo? In definitiva direi proprio di no. Si sente che non hanno timbrato il cartellino, nemmeno questa volta, anzi. Si sono solo risvegliati da una sbornia synth pazzesca e si sono ritrovati in un incubo spaziale che assomiglia tanto a quello che hanno lasciato, quando la loro nave ha abbandonato le coste macedoni. E hanno ripreso a navigare. Forse è solo il Mare ad essere cambiato. (Lorenzo Centini)

