Beyond any criticism: trent’anni di Transilvanian Hunger

Barg: La prima cosa che mi viene in mente se penso al black metal è Transilvanian Hunger. Quello dell’omonima è anche il primo riff che io abbia imparato a suonare appena presa una chitarra in mano; non che ne abbia imparato molti altri, ma cinque o sei venivano da qua. Se il disco della svolta era una fiammata nei cieli del Nord, allora Transilvanian Hunger è più una cometa. Sia all’esterno, perché ha provocato un pulviscolo di migliaia di gruppi che compongono la sua scia, brillando del fulgore delle sue intuizioni; sia all’interno, perché l’omonima in apertura è talmente iconica che tutte le altre sono ricordate come le altre a seguire. Eppure l’album è tutto bellissimo, nonostante l’enormità dell’omonima, e non può essere ascoltato se non alla vecchia maniera: in solitudine, di notte, in cuffia, guardando il cielo nero. Solo così si può capire la prospettiva entro cui inquadrare Transilvanian Hunger: il Male. L’emozione che questo disco vuole trasmettere è il Male. Per questo è così primordiale, minimale, ripetitivo: sta cercando di rappresentare un concetto. Un malìa che ti prende nelle ossa e non ti abbandona fino alla fine. Mi auguro per voi che lo abbiate assorbito da adolescenti, perché ascoltato per la prima volta in età adulta è molto difficile da comprendere. Ma una volta che quelle emozioni le hai percepite nel modo in cui solo un ragazzino può percepirle, allora avrai per sempre un brivido alla schiena ogni volta che sentirai partire quel riff.

Michele Romani: We would like to state that Transilvanian Hunger stands beyond any criticism. Questa era la prima parte della famigerata scritta apparsa sulla prima stampa di questo capolavoro, e la recensione potrebbe chiudersi qui. Lascerei da parte il resto e tutto lo scandalo che si è venuto a creare e mi concentrerei più sulla musica. Transilvanian Hunger è il mio disco preferito dei Darkthrone e il secondo disco black metal migliore di tutti tempi (il primo è quello di cui parleremo tra quattro giorni), e soprattutto il disco che più di tutti riassume appieno il significato di True Norwegian Black Metal. Qui infatti non troviamo né le reminiscenze death del primo, né le parti cadenzate che qua e là facevano capolino nel secondo, né quella sorta di tributo ai Celtic Frost che era il quinto. Puro e incontaminato black metal norvegese dalla prima all’ultima nota, solita registrazione livello demotape (anzi, molto peggio), riff e blast beat votati al minimalismo più totale, basso ovviamente inesistente. Insomma, da un punto di visto prettamente strumentale l’album black metal definitivo, come lo definirono ai tempi gli stessi Fenriz e Nocturno Culto. I brani sono uno meglio dell’altro, oltre all’obbligatoria title track cito i due che mi capita di risentire più spesso, vale a dire Over Fjell og Gjennom Toner (due minuti e mezzo di odio e misantropia totale) e En Ås I Dype Skogen, con quello stupendo e malinconico riff che si ripete all’infinito, degno finale per un disco fondamentale soprattutto per tutti quelli che l’hanno copiato e lo copiano spudoratamente ancora oggi.

Griffar: Una storia che va raccontata: venni a sapere dell’esistenza di un gruppo di nome DarkThrone leggendo i ringraziamenti nella busta interna dell’LP di Nothing but Death Remains degli Edge of Sanity. Solo che, visto che tra alcuni gruppi c’erano le virgole e tra loro no, pensavo che la band si chiamasse DarkThrone Cadaver. Che sarebbe pure un nome fighissimo, ancorché privo di significato. Mi ci ruppi la testa a cercare qualcosa di ‘sti tizi, poi a breve distanza uscirono Soulside Journey e Hallucinating Anxiety e ne capii finalmente il motivo. Sveglio, eh? Avevo 18 anni… Qualche tempo dopo uscì il primo vertice della croce rovesciata, quell’A Blaze in the Northern Sky che ha radicalmente cambiato la storia del metal. Under a Funeral Moon è sublimemente incommensurabile, e gioca in un campionato a parte. Il terzo vertice uscì in un gelido febbraio di trent’anni fa. Poi venne Panzerfaust e lì ci fu la somma di tutti i tre precedenti, issandosi all’apice della carriera dei norvegesi senza mai più essere spodestato.

Se pensavate che di Transilvanian Hunger avrei scritto unicamente in modo prostrato e adorante vi deluderò. Secondo me ebbero troppa fretta nel cercare il loro Reign in Blood, perché Transilvanian Hunger quello è nella loro discografia: c’è quel brano, quei due riff che non puoi fare a meno di mugolare nello stesso momento in cui pensi al pezzo, e tutto il resto, pur se livello assolutamente elevato (Slottet i det Fjerne e En ås i dype skogen su tutte, le altre appena inferiori) finisce per passare in secondo piano perché si ascolta di continuo il pezzo iconico, forse il più iconico della storia del black norvegese. Il resto è ok, sì, capolavoro, ma non è la stessa cosa. Non è Angel of Death. Sfottuto in modo feroce dai detrattori che consideravano il black metal solo frastuono, questo album ha influenzato decine di migliaia di band che, in più di un’occasione, oltre ci sono andati e anche alla larga. Rimane il valore storico dell’opera. 

L’Azzeccagarbugli: Difficile dire qualcosa di sensato su uno dei propri dischi preferiti in assoluto, che costituisce anche il canone, il paradigma di un genere: in un certo senso, il Quarto Potere del black metal. Quindi mi limiterò a spiegare che cosa rappresenta per me Transilvanian Hunger:

1) il freddo, come concetto assoluto. Una forza che annichilisce, sia quando c’è una raffica di vento che ti entra nelle ossa, sia quando inizi a sudare freddo, anche a quaranta gradi, quando l’ansia o la paura non riescono ad abbandonarti;

2) commozione, quando al Wacken del 2004 ho avuto la fortuna di vedere Nocturno Culto cantare quattro pezzi dei Darkthrone con i Satyricon e mi ricordo, sì io mi ricordo, di aver visto più di qualche persona commuoversi copiosamente, ascoltando pezzi che di “commovente” hanno ben poco, a parte la loro grandezza;

3) fomento, perché non riesco a stare fermo quando lo ascolto. È più forte di me. In particolare, quando parte Skald Au Satans Sol non mi contengo. E di recente ho rotto la leva dei tergicristalli della macchina in un “impeto ritmico” (o di idiozia), celando ovviamente il fattaccio e sostituendo il pezzo in gran segreto;

4) amicizia, perché quando sono arrivato all’università da Cosenza (a 17 anni) e ho iniziato a cercare dischi che giù non trovavo in alcun modo, alle 9 di mattina si presentò al cancello della facoltà il vostro affezionatissimo Trainspotting con la copia masterizzata di A Blaze in the Northern Sky e di Transilvanian Hunger con i titoli e i credits scritti a mano. E anche se poi, ovviamente, ho trovato gli originali, quelle copie sono ancora qui con me.

Stefano Mazza: all’inizio del 1994 c’erano ancora tanti dischi da ascoltare e da recepire come meritavano, perché l’anno precedente era stato per l’heavy metal uno dei momenti più creativi della sua intera storia. All’interno di questo magma incredibile, i metallari più avveduti sapevano che si stava muovendo qualcosa di interessante in Norvegia, soprattutto grazie al secondo disco dei Darkthrone, perché per la maggior parte di noi A Blaze in the Northern Sky fu il primo contatto con quel nuovo modo di fare black metal, termine che prima non è che avesse una connotazione precisa. Anche il loro esordio, Soulside Journey, era stato ragguardevole: era un bel disco di death metal alla scandinava, ma, per la rivoluzione che era in atto lassù in Norvegia, decisero in seguito di ripartire da alcuni presupposti fondamentali del metal per portarli a conclusioni estreme e sconcertanti. Under a Funeral Moon era stato un’ulteriore conferma di un’evoluzione in senso ancora più minimalista, con i tempi di batteria che si erano fatti più monotoni e ossessivi, tanto da far pensare a una nuova regressione compositiva. Transilvanian Hunger fu un’avanzata ulteriore in questo sentiero scurissimo e non facile da capire, tanto che alcuni ascoltatori dell’epoca lo evitarono, ritenendolo un fenomeno passeggero e poco degno di attenzione.

Quindi, mentre il resto del mondo prendeva tutte le strade possibili per espandersi, creare nuovi ibridi e cercare di farsi notare, Transilvanian Hunger ti riportava all’indietro, in un buco nero, alle origini di tutto: chitarra, batteria e basso, assemblati su un mixer a quattro piste in casa di Fenriz, la voce di Ted Skjellum aggiunta in studio, per un minutaggio totale di quaranta minuti scarsi, senza nessun’altra concessione all’ascoltatore. Quando lo ascoltai, restai stupefatto dalla arcana perfezione di questi brani: i riff tutti brevi e bellissimi, i ritmi compulsivi, gli strumenti incisi malissimo, ma davvero efficaci e tutti presenti, basso compreso; la voce compostamente screaming di Ted Skjellum, le scarse melodie che si indovinano nella successione monotona dei colpi, il freddo, la rabbia, le criptiche citazioni dei Bathory e di altri gruppi molto meno noti, i testi in norvegese… Quello che fino a pochi mesi prima mi era sembrata una cosa strana, curiosa, per quanto musicalmente eccezionale, stava diventando più importante di quanto pensassi. Il black metal, quello nuovo, reinventato dai norvegesi, era diventata una creatura più compiuta, definita e Transilvanian Hunger ne è da allora una delle testimonianze più incredibili.

7 commenti

  • Avatar di TonyLG

    A mio avviso, non è importante come “A Blaze in Northern Sky” e “Panzerfaust”. Sono tutti dischi seminali – anche Transylvanian Hunger lo è. Il problema è che ha seminato quasi esclusivamente robetta fotocopiata e noiosa. Mentre il secondo e il quarto sono stati fonte di ispirazione per musica ben più creativa.

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  • Avatar di weareblind

    Che bello il gesto di Trainspotting!

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  • Avatar di Fanta

    Lo scrivo qui: quest’anno Burn e Poweslave compiono rispettivamente 50 e 40 anni. Direi che sarebbe il caso di occuparsene. Dopo Killers, il secondo, è il mio disco preferito dei vecchi. E il primo è ciò che amo di più dei vecchissimi. Daje su.

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  • Avatar di Schnell

    Io sono uno di quelli che ha scoperto il disco dopo l’adolescenza (ma neanche così avanti negli anni). Ha cambiato l’intero concetto di musica che fino a quel momento ascoltavo, ovvero quasi solo power e prog. Per me non è possibile un giudizio critico quando un’opera è così emotivamente sconvolgente.

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  • Avatar di Cattivone

    Ho conosciuto questo disco fuori tempo massimo credo. Title track a parte apprezzo molto, ma in ambito TNBM per me Panzerfaust nella sua interezza resta il lavoro piú rappresentativo e a parer mio migliore. Sí, i Darkthrone erano avanti a chiunque.

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  • Cazha Selvarega
    Avatar di Cazha Selvarega

    Avevo 15 anni, odiavo tutti e Transylvanian Hunger era quell odio messo in musica. Ero un ragazzino insicuro e imbranato e trovai in quel disco, e in altri dopo, quelle certezze che servirono a farmi superare indenne l’adolescenza.

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