Wall of Eyes dei THE SMILE è il miglior disco dei Radiohead degli ultimi anni

A otto anni dallo splendido A Moon Shaped Pool si può affermare con una certa dose di certezza che almeno nell’immediato futuro sia questa l’unica evoluzione a cui siano interessati Thom Yorke e Johnny Greenwood, quella che avviene in un contesto lontano dalla band madre.

Ciò non significa che i Radiohead non esistano più, ma è oltremodo evidente che i suoi membri più “eminenti” abbiano intenzione di esprimersi in modo più libero, senza pensare a quel mausoleo di responsabilità e di aspettative che si porta dietro quel nome importante. E in mezzo a tanti progetti estemporanei, collaborazioni, dischi solisti, colonne sonore (davvero straordinarie sia quella di Suspiria di Yorke sia quelle di Greenwood, in particolare per Phantom Thread), è apparso fin da subito evidente che fossero gli Smile ad essere l’unica band con un minimo di concretezza e di stabilità, l’unica in cui il duo, insieme a quell’enorme musicista che è Tom Skinner, ha deciso di investire il proprio tempo.

Se questa particolare convinzione era percepibile sin dal discreto esordio (a tratti un po’ irrisolto) A Light for Attracting Attention, con la pubblicazione di Wall of Eyes a meno di due anni di distanza, l’annuncio di un tour mondiale e la grande attenzione che è stata prestata in fase di lancio dell’album, si capisce che con gli Smile gli inglesi fanno sul serio.

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Una realtà confermata con forza dall’ascolto di un album che non solo costituisce l’episodio migliore dei Nostri al di fuori della band madre – escludendo le colonne sonore – ma che rappresenta altresì il meglio di ciò che possono offrire oggi musicisti del genere.

Certo, chi – anche nel 2024, come i soldati rimasti a combattere in Giappone dopo la fine della seconda guerra mondiale – continua ad accusare ciecamente Yorke e Greenwood di una “perdita dell’innocenza” iniziata dagli albori del nuovo millennio e di una deriva eccessivamente astratta, non troverà nulla di proprio gradimento in un album come Wall of Eyes, che, salvo un paio di episodi, si muove su atmosfere ancor più rarefatte del passato, con un Greenwood costantemente e meritatamente in primo piano.

Le sue orchestrazioni, infatti, sono al centro degli arrangiamenti e costituiscono il filo conduttore che lega brani tanto differenti ed eterogenei a livello musicale quanto evidentemente frutto di un medesimo afflato di stampo “progressive”. Un termine da non ricondurre strettamente agli stretti confini del genere musicale, per quanto siano più che tangibili echi kingcrimsoniani nella straordinaria doppietta Read The Room / Under Our Pillows,  ma più a una proposta capace di evolversi e progredire, pur in assenza di scossoni o brusche virate.

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Perché di brusco in quest’album non c’è quasi niente, anche se dietro ad atmosfere apparentemente placide – come il brano iniziale che dà il titolo al disco, quasi una bossanova acustica – si annida un nervosismo che resta quasi sempre sottotraccia, nell’eccellente lavoro sulle ritmiche (da parte di uno Skinner clamoroso) e sui tempi dispari, e che esplode solo in momenti tanto sparuti quanto deflagranti, come nel finale dell’eccellente Bending Hectic.

I superlativi utilizzati non sono casuali e non sono frutto di fanatismo nei confronti di Yorke e soci: chi scrive ha sempre avuto un atteggiamento laico nei confronti dei Radiohead, distinguendo con serenità le uscite meno incisive da quelle che meritano l’attenzione e l’esaltazione che spesso viene riservata, anche aprioristicamente, a certi lavori. E che nel caso di specie è pienamente giustificata, perché ad ogni ascolto Wall of Eyes mostra qualcosa di nuovo, anche in brani apparentemente semplici come Friend of a Friend, impreziosita dal video di Paul Thomas Anderson, o nella conclusiva You Know Me!, che da classica ballad incentrata sul piano comincia ad aprirsi ad inserti psichedelici e ad orchestrazioni mai invasive, ma incredibilmente incisive.

Un grande album che richiede attenzione e pazienza, che possibilmente non andrebbe ascoltato dalle casse di un laptop, e che non può essere liquidato con un paio di ascolti frettolosi che non consentirebbero neanche di scalfire la superfice di un’opera quasi sussurrata, che racchiude all’interno infinite sfaccettature. (L’Azzeccagarbugli)

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