Nomi sbagliati per concetti giusti: ANDRACCA – To Bare the Weight of Death

Degli Andracca non sapevo nulla fino a pochi giorni fa, quando mi è capitato di ascoltare il loro ultimo To Bare the Weight of Death, sorridendo sull’ovvia, per noi italiani, storpiatura del loro nome. Da una rapida ricerca si deduce che gli Andracca sono inglesi e che fanno tutto da sé, altrimenti non avrebbero scelto un nome simile. Ipse dixit: “The band’s name is a Middle English translation of Ancalagon, the largest dragon in the Tolkien universe” . Probabilmente la scelta è vincente dal punto di vista dell’indicizzazione del nome, magari per evitare che cercando il loro nome si finisse in una tolkienpedia a caso, ma io non sono esperto di marketing e tutti sappiamo che al black metal si arriva attraverso ben altri grimori.

 

Il black metal degli Andracca si inserisce nel filone più recente in cui il taglio melanconico prevale su quello grim o tradizionalmente stupramadonne, tipo Panzerfaust , Ellende e, in un certo qual modo, Uada. Dunque atmosfere decadenti e pezzi generalmente molto legati ai riff, cosa buona e giusta se in grado di elargire le giuste quantità di scapocciate. Nell’album, di fatto, ci sono diversi momenti ben riusciti, con buoni riff o aperture dal gusto epico, ma non sempre le cose buone sono sorrette da un’impalcatura particolarmente brillante. Non che sia da buttare, per carità, ma gli Andracca diluiscono un p’o troppo le ideuzze anche sfiziose che si trovano qui e lì, sbrodolando un po’ troppo il pezzo e facendo perdere un po’ di efficacia. Per dire, la prima traccia parte bene, con una bell’atmosfera luciferina, ma una volta passati i primi giri di riff ti viene da chiederti se il pezzo non avesse potuto essere qualcosa di più. Meglio invece la seconda Rise or Be Forever Fall’n, con un’intro vagamente bathoriana che poi naviga su altri lidi, e la quarta Antithesis of Hope, che risulta essere la traccia più movimentata, con un susseguirsi di riff, assoli e cavalcate quasi fosse un pezzo più heavy che black.

Piccola nota a margine sul mix: non riesco a farmene un’idea precisa. Al primo impatto mi sembrava accostabile all’acustica di uno di quei localacci piccoli che ci piacciono tanto: in un primo momento fa cacare, dopodiché, per qualche motivo, ci si fa l’orecchio. È comunque un deciso passo avanti rispetto alla produzione molto più casereccia dell’album precedente: in fondo qui si sente pure il basso, anche se a discapito della batteria. Ciò che non va è che il casino generale nasconde un po’ troppo le chitarre ritmiche e taglia le gambe a tutti quei ganci e quei belletti che avrebbero potuto fare la differenza. Mi sento comunque di consigliarvene qualche ascolto, senza aspettarsi grossi scossoni e con la speranza che al prossimo disco questi giovani inglesotti trovino la strada giusta per guadagnarsi l’appellativo de “Il Nero”. (Maurizio Diaz)

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