La finestra sul porcile: The Bear

Ormai è sempre più difficile seguire serie che, nel bene o nel male, restino e lascino un segno nel corso degli anni.
Un po’ è colpa di un mercato, ormai arrivato alla piena saturazione, in cui qualunque tematica è stata trattata, approfondita e digerita; un po’ è colpa nostra, degli spettatori, sempre più schiavi di tempi e ritmi disumani e che spesso ci troviamo a utilizzare le serie come tappabuchi, come qualcosa da trangugiare tra un punto “a” e un punto “b” della giornata. Il risultato è che, da un lato, si producono sempre più serie di qualunque genere, per coprire tutto lo spettro dei gusti degli spettatori, e dall’altro si passa da una serie all’altra, senza dare possibilità di farle crescere e senza seguirle in modo congruo, e senza “aspettare” quello che la serie davvero vuole dire.

Questa incapacità di attendere – che per me resta una delle vere piaghe sociali della contemporaneità – era stata ben rappresentata dagli Arcade Fire nella bellissima We Used to Wait e si ricollega alla perfezione in The Bear, serie che costringe lo spettatore ad attendere un qualcosa che, fondamentalmente, non arriva mai e che detta dei ritmi tutti suoi.

Una serie che alterna – con piena consapevolezza – ritmi frenetici (vedi il pilot) a puntate riflessive e quasi contemplative, e che decide di concentrare l’attenzione su microavvenimenti a livelli di intreccio, per dare ampio spazio ai personaggi.

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Per chi non sapesse davvero nulla della serie targata FX (in Italia presente nel catalogo di Disney +), le prime due stagioni di The Bear seguono le gesta di Carmine Berzatto (uno straordinario Jeremy Allen White), enfant prodige della cucina che, dopo un’esperienza estremamente rilevante in un ristorante a tre stelle Michelin, a causa di un fortissimo stress e di un evento luttuoso – che non svelo – si lascia alle spalle la fama per dedicarsi anima e corpo al The Original Beef of Chicagoland, paninoteca del fratello. In questo contesto faremo la conoscenza dei lavoratori del ristorante e della famiglia disfunzionale di Carm.

Se, da un lato, questa volutamente sintetica e asettica sinossi consente già di prevedere alcuni sviluppi, forse quelli meno interessanti, la sua vera forza della serie è nel delineare personaggi imperfetti che vengono calati in un contesto di straordinaria contemporaneità.Perché, come disse una volta Roger Ebert, un film non è quello che racconta, ma come lo racconta, e in The Bear la grandezza della serie risiede proprio nell’approccio che si ha verso le tematiche trattate e i suoi personaggi: insomma, nel come.

Sotto un punto di vista formale, abbiamo una “confezione” che si distacca dalla piattezza della serialità contemporanea e si affida ad una regia e ad un montaggio che sanno adattarsi al tono della puntata, alternando stacchi frenetici, primissimi piani e lunghi piani sequenza (come quello che copre quasi l’intera settima puntata della prima stagione, Review), al ternando registri e ritmi di segno opposto in base a ciò che deve essere raccontato, come testimoniato anche dalla durata delle puntate, quasi sempre diversa.

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Sotto un profilo contenutistico, invece, un fenomeno ormai dilagante come quello dell’alta cucina viene privato di tutto quell’allure social e viene ricondotto, da un lato, ad una passione totalizzante ai limiti dell’ossessione, dall’altro ad un’attività imprenditoriale quasi sempre fallimentare sia sotto un profilo economico, che burocratico, che, soprattutto, umano.

Il lavoro, come sempre più accade di sovente nella società contemporanea – a maggior ragione nel contesto americano – diventa tutto nella vita di Carm, Rick, Sidney e di tutta la brigata: un modo per anestetizzare le proprie esistenze dal dolore, dall’insoddisfazione, dai propri limiti caratteriali e umani e dalle proprie problematiche. Una valvola di sfogo che però, allo stesso tempo, diventa fonte di ulteriori problemi, ansie e stress, finendo per fagocitare le intere esistenze dei protagonisti (anche con alcune più che perdonabili forzature nell’intreccio), all’ombra di una Chicago che è sia una casa amata, sia una macchina spietata che non lascia spazio ad errori e a cedimenti.

Cedimenti che, invece, sono presenti nelle vite di ognuno dei personaggi che impariamo a conoscere e ad amare anche attraverso le aperture verso il loro lato privato e familiare, come nelle puntate dedicate al passato – lo splendido sesto episodio della prima stagione, Ceres, o il suo equivalente nella seconda, Fishes, esaltato da un cast stellare – o in quelle incentrate su un solo personaggio (Honeydew nella seconda stagione, quasi interamente ambientata a Copenaghen).

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Un ritratto impietoso sociale e personale in cui però c’è sempre una speranza, un barlume di luce, in cui si ride spesso anche sguaiatamente grazie a comprimari straordinari (in particolare, non può non menzionarsi uno straordinario Matty Matheson nella parte di Fak) e che ci fa sentire vicini a certi personaggi.

Per alcuni aspetti, infatti, The Bear ricorda l’ultimo album dei concittadini Wilco (tra l’altro presenti nella spettacolare colonna sonora che usa come temi ricorrenti New Noise dei Refused e Strange Currencies dei R.E.M.): non è proprio l’abbraccio dell’amico di sempre quando nei hai bisogno, ma quasi. È un rapporto di reciproca empatia con lo spettatore. Al di là delle differenze che possono esserci con personaggi e contesti del genere, si avverte una vicinanza, un’affinità nel fronteggiare situazioni e difficoltà con le quali è impossibile non confrontarsi nel corso della vita.

Ed è quasi come se lo showrunner, Christopher Storer, attraverso questi personaggi, tipici di una certa narrazione americana, quasi springsteeniani, volesse creare un ponte con gli spettatori e raggiungerli nella loro sfera più intima, per far sentire anche a loro una certa vicinanza, come simboleggiato dalla splendida You’re Not Alone di Mavis Staple (scritta da Jeff Tweedy) che impreziosisce il sentito finale di Sundae, terzo episodio della seconda stagione.

In conclusione, se ci si apre a The Bear e si ha la pazienza di aspettare, di far crescere i suoi personaggi e di comprendere dove Storer vuole portarci, e se non si cerca un mero intrattenimento, si può scoprire una delle migliori serie – per distacco – degli ultimi anni, che è stata persino capace di crescere e maturare nella seconda stagione. (L’Azzeccagarbugli)

You’re not alone
I’m with you
I’m lonely too

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