Avere vent’anni: DECREPIT BIRTH – …And Time Begins

Generalmente si è soliti pensare che il primo disco di una band sia sempre il migliore. È una legge non scritta che accomuna tutti gli appassionati di musica, qualunque sia il genere preferito: il secondo album non è al livello del primo, il terzo non al livello del secondo… Succede nel 99% dei casi. Perché accada non lo so spiegare, una mezza idea ce l’ho ma, non essendo corroborata da studi sociologici in grado di confermarla, è meglio che la tenga per me.

Quando ho ascoltato per la prima volta …And Time Begins degli americani Decrepit Birth rimasi a bocca aperta, perché il loro brutal death ultratecnico portava avanti il discorso iniziato da Suffocation, Deeds of Flesh e Dying Fetus e lo elevava verso picchi fino ad allora inesplorati. Riffing contorto, complicatissimo, intricato fino all’inverosimile, talmente tanto che uno dei pezzi (Rebirth of Consciousness) non è mai stato suonato dal vivo perché la band stessa non ritiene di essere capace di suonarla come si deve su un palco. Estremismo puro. A rendere il disco ancora più eccezionale la grandiosa copertina di Dan Seagrave (suppongo sappiate tutti chi è), interessantissimitesti fantascientifici scritti con passione e competenza, nessun orpello inutile ad appesantire (oppure alleggerire) i pezzi, niente tastiere, campionamenti di film di serie Z, neanche assoli di chitarra.

Solo 9 brani per 25 minuti effettivi di musica: a parte la title track posta in chiusura (4 minuti seguiti da una coda di effetti inutili) gli altri pezzi sono brevi o brevissimi (Prelude to the Apocalypse non arriva al minuto e mezzo ed è il brano che apre il disco, pronti via e sono subito mazzate sui denti, tanto per mettere subito in chiaro dove si andrà a parare), uno di essi è strumentale (Of Genocide) e tutti gli altri hanno come minimo comune denominatore l’essere una carneficina. Che sembrava essere imbattibile. L’apice della carriera all’esordio e poi si vivrà di rendita. Invece cinque anni dopo uscì Diminishing Between Worlds, che ridimensionò …And Times Begins senza possibilità di appello. Si compres che la band stessa avrebbe potuto fare molto meglio, furono evidenziate le loro influenze in modo più smaccato e l’album fu riportato ad una dimensione più umana, laddove prima sembrava fosse suonato da alieni.

Sic transit gloria mundi: oggi si legge in giro di …And Time Begins come di una copia (secondo alcuni folli neanche troppo riuscita, ma si sa che se si parla di donne, vino e musica ognuno la pensa in modo diverso e ognuno è convinto di essere il Messia) di Effigy of the Forgotten. Ovviamente non è vero, ma qui rientriamo in quello sparuto 1% di casi nei quali i fan non considerano inferiore tutto quanto pubblicato dopo l’esordio bensì viceversa, ciò che in origine era considerato inarrivabile diventa (solo successivamente) un disco “normale”. È solo per questo motivo che …And Time Begins ha sofferto il passare del tempo: sono stati i Decrepit Birth stessi a fare talmente meglio nei dischi successivi da sminuirlo e renderlo il meno importante dell’intera loro discografia. Immaginatevi il livello, quindi. (Griffar)

Un commento

  • Non è che se non hai fatto studi sociologici non puoi azzardarti a dire la tua. E ti invito a farlo, ovviamente. Mi riferisco al tentativo di comprendere perché il primo album di una band spesso risulti essere il migliore.

    Sono abituato a pensare, in contro-tendenza ai paradigmi dominanti da oltre 50 anni in ambito epistemologico, che sia molto importante costruire ipotesi e non limitarsi a falsificare quelle “nulle”. Poi sì, certo, vanno anche verificate le ipotesi in un secondo momento. Ma cazzo, ci si potrà pure permettere di usare dei modelli senza cadere nello scientismo da laboratorio? Lo stesso che non si cura minimamente della validità ecologica delle teorie, in altri termini. Parlo da professionista in questo caso. Ma…
    Tornando a cose più spicce. Dico la mia soprattutto da uomo della strada.

    Il primo album di una band significa anzitutto che ci si è arrivati (parlo al plurale perché continuo a prediligere le band composte da più membri: più membri significa più problemi ma anche più possibilità di scrittura) dopo un tempo statisticamente significativo impiegato a comporre. Il primo disco tiene insieme pezzi che occupano una linea temporale che copre un lustro o persino due. Non è una legge generale ma di solito funziona così. Hai la possibilità di fare delle scelte rispetto a ciò che hai prodotto nel tempo, con il tempo, con la fatica ma anche con la progressione e le tappe che si superano.
    Il primo disco è pure il manifesto di una quota importante di impulsività giovanile. Le scelte di cui sopra non sono ponderate, tantomeno annacquate da criteri di mercato. Furia, incoscienza, cultura del rischio e del superamento dei limiti fanno il resto.
    I dischi successivi saranno sempre tarati su dimensioni meno istintuali. È inevitabile. E avranno dei parametri di comparazione con quanto fatto prima. Inevitabile anche questo.
    Con una distinzione per me fondamentale a questo punto. Ovvero: quanto le persone che fanno la band rimangono in contatto con “il reale del vivere”? Continuano a percepire il desiderio come mancanza ad essere costitutiva del modo di essere “umani”?
    Chiunque si senta appagato, chiunque perda contatto con il guardarsi attorno entro un vissuto di insaturazione e di spinta a comprendere, chiunque in altri termini perda contatto con la propria capacità negativa (per dirla con John Keats, man of achievement; e con lo stesso Wilfred Bion), esaurisce la necessità di trasformare il reale in capacità di simbolizzare con l’arte.
    Saper sostare nell’incertezza e sentire l’odore della frustrazione, sono componenti ineludibili nell’avere ancora qualcosa da dire. Chi ritira il proprio sguardo – sinistro, poetico, critico, rabbioso e sognante – da ciò che ci attanaglia e ci interroga incessantemente, esaurisce ed eventualmente falsifica la propria creatività.
    Nella musica come nel cinema, nella letteratura o in qualunque declinazione della produzione artistica.
    Chi rimane in contatto con lo scarto rappresentato dal non poter mai, pienamente, essere in sé, esaurirsi in sé e nella propria illusione di possesso, forse avrà ancora cose importanti da gettare sulla scena della vita. Anche dopo l’opera prima.

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