Massimalismo elettrico: SWANS – The Beggar

Tante volte si sente dire, in riferimento a una determinata opera, chenon è per tutti”. Un’espressione che spesso viene declinata in modo fastidioso e associata ad un certo snobismo, ma che in realtà, in molti casi, si traduce in una mera constatazione. Perché ci sono opere che, indipendentemente dalla natura e dal genere, non hanno un contenuto “universale”. Quindi, affermare che gli esperimenti sonori di La Monte Young o la violenza di un Tomb of the Mutilated dei Cannibal Corpsenon sono per tutti” è una mera constatazione che può ben applicarsi alla proposta degli Swans e, ancor di più, a quelli mark II.

Sia gli Swans del trittico The Seer/To Be Kind/The Glowing Man sia quelli di Leaving Meaning e dell’ultimo The Beggar sono, infatti, sempre più disinteressati alla forma canzone e sembrano rivolti a creare composizioni sempre più annichilenti, basate su pattern e ripetizioni ossessive, quasi una sorta di purificazione per raggiungere una catarsi musicale e non: un viatico per un’ascensione verso il nulla. Una sensazione che traspare sia dal massimalismo elettrico inaugurato con The Seer e i suoi live di tre ore con volumi proibitivi sia nelle ultime prove in cui le chitarre elettriche e la distorsione sono presenti ai minimi termini, pur riuscendo a non alterare la natura della proposta.

In ogni caso, per quanto mi riguarda, sia nella loro fase storica che in questa attuale la musica degli Swans rappresenta una delle esperienze più totalizzanti che si possano chiedere ad un gruppo musicale. The Beggar, per molti aspetti vicino alle atmosfere di Leaving Meaning, non fa eccezione e rappresenta probabilmente il culmine e il termine di questa metamorfosi. E non mi stupirei affatto se dovesse diventare l’ultima opera degli Swans. Sia perché Michael Gira ha più volte dichiarato quanto sia difficile e faticoso comporre e registrare lavori di questo tipo sia perché The Beggar ha il sapore di un album testamentario.

Sin dall’iniziale The Parasite si respira questa atmosfera e si capisce che il parassita che si nutre del proprio ospite e che ci si chiede se consumi l’aria stessa che respiriamo è la vecchiaia. Gira, classe ’56, già da tempo ha iniziato a confrontarsi con il passare del tempo e lo fa con la stessa “alterata lucidità” con cui affrontava le nevrosi giovanili della prima parte della sua carriera.

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Dal western apocalittico che apre l’album, The Beggar muta continuamente pelle e, come i suoi predecessori, non è mai possibile incasellarlo in un genere definito: così si passa dalla cantilena di Paradise is Mine, che si infiamma nell’ossessivo break centrale (Is there really a mind? Am I ready to die?), a quello che assomiglia all’unico singolo della discografia degli Swans, Los Angeles: City of Death, che richiama quasi certi Velvet Underground e che offre una fotografia forse nostalgica delle nefandezze della Los Angeles degli anni ’80.

Nonostante le oltre due ore di durata, come avviene ormai per tutte le ultime uscite del gruppo, una volta entrati nel mood  è difficile uscirne, anche dopo giorni, e The Beggar ha anche il grande pregio di non restare “cannibalizzato” da The Beggar Lover (Three), brano più lungo della carriera della band con i suoi quarantaquattro minuti semistrumentali (non vi è quasi mai cantato, ma sono utilizzate comunque le voci di diversi componenti del gruppo). Si tratta di un’ulteriore e ultronea prova della grandezza di un gruppo che non ha timore di spaziare tra i generi – in questo caso, per la prima volta da anni, fanno breccia anche se per pochi secondi ritmiche industriali che sembrano arrivare da un passato remoto – e che chiede all’ascoltatore una certa attenzione e vuole che sia messo alla prova.

Nonostante la pachidermica durata del brano, posto quasi a conclusione dell’album e che rappresenta la fine di un certo discorso tematico, il cuore di The Beggar, quello rappresentato e messo a nudo in copertina, è altrove ed è, giustamente, posto al centro del disco.

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Da Michael is Done a Ebbibg (forse il miglior brano del lotto) si realizza un grande percorso di consapevolezza musicale e umano portato avanti da Michael Gira, il quale in primis prende atto della sua finitezza (When Michael is gone, some other will come) per poi iniziare a perdersi dentro sé stesso, facendo avanzare il parassita di cui sopra (Where do I end? I don’t think this is me. Well, I think that I’m thinking, but there’s too much to know. It seems that I’m shrinking while I continue to grow) fino ad una resa quasi assoluta (No More of This) che lascia poco spazio all’immaginazione, ma in una chiave quasi inedita per Gira.

Perché è una rassegnazione che sa anche di reale pace con sé stessi, e anche se non c’è più tempo per pensare, o respirare, c’è anche una speranza che viene esplicitata con toccante umanità in uno dei versi finali del brano: I pray to Heaven that you exist / Within a cloud of healing mist that permeates your deepest being / that bathes your soul with a light that cleans.

Non so se questo sarà l’ultimo album degli Swans, non so se la ricerca di Michael Gira giungerà al termine, ma so che The Beggar, che ancora una volta non è affatto un album per tutti, è riuscito ancora una volta a superare le mie aspettative.

E quel desiderio di purificazione esplicitato in No More of This, oltre ad essere davvero commovente per chi ha iniziato la propria carriera nella sporcizia, rappresenterebbe, in ogni caso, il miglior possibile commiato artistico per Michael Gira. (L’Azzeccagarbugli)

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