Il calcio femminile fa schifo: YELLOWJACKETS

Yellowjackets è una serie televisiva disponibile su Paramount Plus che mi è stata segnalata alcuni mesi fa proprio da un lettore, Andrea. Mi sono incuriosito, sebbene sembrasse un gran rimpastone di Alive – Sopravvissuti e Lost in versione teen. Sarà che c’era Juliette Lewis, sarà che non avevo niente da vedere, ma mi ci sono avvicinato. E ho scoperto che cosa aveva combinato l’algoritmo.

Gli sceneggiatori, pur di rendere Yellowjackets conforme agli standard odierni e competitiva con The Last of Us, hanno ben pensato di impostare codeste linee guida:

  • Squadra di calcio femminile
  • Cannibalismo, ora che Dahmer ha fatto il botto
  • Effetto nostalgia alla Stranger Things
  • Coppie lesbo interracial

Cito inoltre Grazia.it, che lo definisce “cannibalismo adolescenziale, matriarcato e femminismo horror”. Quasi a non volerci invogliare affatto.

104 - Bear Down

Una bella merda, parrebbe. E invece no. Yellowjackets è in fin dei conti una buona serie televisiva, composta da una prima stagione avvincente e da una seconda che a tratti sfiora l’atrocità. Ma andiamo per gradi.

L’inizio è dei peggiori: una partita di calcio femminile in cui giocano larghissime; lo spettacolo è ai livelli di Italia-Germania ai mondiali messicani 1970 e le calciatrici si esibiscono in improbabili giochetti, inquadrate a mezzo busto per nascondere le controfigure autrici di cotanti dribbling e passaggi filtranti. Sarò sincero, in vita mia ho guardato un totale di quattro o cinque partite di calcio femminile, nel periodo in cui la RAI tentava di sdoganarlo in tutte le maniere: pubblicità, prima serata, primo canale e tutte le facilitazioni del caso. Se siete onesti con voi stessi converrete con me che il calcio femminile è una merda. Ci sono sport che si prestano maggiormente a una versione femminile: la pallavolo, ad esempio, e io ho giocato a pallavolo presso la notevole Robur Scandicci senza mai sfracellare i coglioni ad anima viva per il fatto che la mia Robur meritasse una maggiore visibilità. C’è chi preferisce il tennis femminile al maschile nonostante colossi come Federer, ma il calcio, Cristo, no. E non perché è lo sport più seguito e redditizio in Europa.

La trama della serie ha una svolta quando la squadra prende un aereo, e, sorvolate le più remote foreste del Canada, precipita lasciando in loco la carcassa mezza incendiata e i superstiti dello schianto. Sì, i superstiti. Perché ci sono anche dei personaggi maschili, e qui rientra in gioco l’algoritmo.

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Se non erro sono in tre: il vice allenatore omosessuale, il più organizzato e intraprendente di tutti nonostante la sua disabilità (una gamba destinata alla cancrena amputata in tempo), e i due figli del capoccia della squadra, che rappresentano gli ideali maschi moderni metrosessuali, vanesi, sensibili e rasentanti il mutismo.

Ripeto che non è affatto una merda. Yellowjackets è una serie televisiva assai sopra la media, perché, al netto di decine di tentativi di fare schifo ai maiali, risulta ugualmente guardabile, buona, per lunghi tratti avvincente. La storia si svolge lungo due linee temporali, il che è causa degli innumerevoli problemi che affliggeranno Yellowjackets, in particolar modo nella seconda stagione. La prima linea dipinge un ottimamente ricostruito 1996 che, partendo dai campi di calcio, si sposta fra le conifere innevate dopo il disastro aereo. Lì le ragazze rimarranno per diciannove mesi, ma fin dalla prima puntata sapremo che molte di loro verranno salvate e che alcune si sono mangiate fra loro.

Nella seconda linea temporale, venticinque anni più tardi, le invecchiate reduci del disastro faranno i conti col ritorno di un qualcosa che non sappiamo con certezza se sia un’entità soprannaturale o il delirio di massa da shock postraumatico. Qualunque cosa le abbia rese una setta di cacciatrici aventi per leader Lottie, la più sbarellata di tutte, e Natalie, la più risoluta di tutte, ancora le perseguita.

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Veniamo al cast, il vero nocciolo della questione. I nomi di richiamo corrispondono a Christina Ricci e Juliette Lewis, quest’ultima segnata dal tempo e da una vita che con tutta probabilità è passata attraverso qualche eccesso in più d’un paio di rum e pera con le amiche il venerdì sera al Time di Calenzano.

Se devi impersonare lo stesso personaggio invecchiato di molti anni, non hai tanta libertà di scelta. Guardi quello che fa il tuo giovane doppione e ti adoperi in modo che la tua gesticolazione, i tuoi occhi, il tuo carattere si esprimano allo stesso modo. Certo, nel caso di Natalie sono arrivati la tossicodipendenza e la riabilitazione, e certe cose cambiano una persona. Ma non la trasformano in un’altra persona.

Juliette Lewis con la sua furia di sovrarecitare ha trasformato Natalie in un altro personaggio, e non c’entra il capello che è diventato scuro. Così come la bipolare Shauna è diventata una bamboccia sarcastica con l’espressione perenne da commediola romantica, motivo per cui detesto un’attrice come Melanie Lynksey (lanciata da Creature del cielo di Peter Jackson e finita con l’interpretare il leader di una milizia in The Last of Us con pessimi risultati). Ottimi invece gli abbinamenti fra la giovane e l’anziana Taissa, mentre pure Christina Ricci è caduta nel tranello di aggiungere troppa verve da caratterista a quella Misty che in gioventù era la più psicopatica e manipolatrice delle Yellowjackets. Nel casting, insomma, i risultati sono stati assai altalenanti e molto spesso le controparti giovani hanno offerto – non in virtù dello scenario drammatico in cui sono calate – le prove migliori sulla lunga distanza. È a dire il vero una buona percentuale della seconda linea temporale a singhiozzare a livello di scrittura.

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Altra cosa scarsamente funzionale è l’aver replicato uno stratagemma vincente, cioè lo sdoppiamento di realtà e sogno in occasione di un momento cruciale della storia: lo avevamo visto con l’epilogo del personaggio di Jackie un anno fa e si è ripetuto con la prima gravidanza di Shauna, instaurando una certa sensazione di deja vu.

L’ultima menzione è per l’ottima colonna sonora. Tra brani di Prodigy, Smashing Pumpkins, Jane’s Addiction, PJ Harvey e Garbage sarà un po’ come tornare a quegli anni dominati da MTV, ma il piatto forte è certamente la sigla iniziale. Il pezzo è un cut di No Return, brano di tre minuti che nella sua versione tagliata gira anche meglio. È composta da due veterani degli anni Ottanta e Novanta, Craig Wedren degli Shudder to Think – e collaboratore di lunga data con le colonne sonore di Hollywood, lo abbiamo visto lavorare in passato a School of Rock e molti altri titoli – e Anna Jeanette Waronker, oggi solista, in passato voce dei That Dog al fianco di due delle sorelle Haden (la terza, non nel gruppo, è sposata con Jack Black). No Return è un gioiellino di puro alternative rock anni Novanta e in ciascuna stagione è stato rivisto all’inizio di una singola puntata in una versione variata, l’ultima delle quali è quella firmata Alanis Morrissette.

Purtroppo la seconda stagione non si è rivelata all’altezza, fra sottotrame sceme – su tutte quella riguardante Elijah Wood – e un finale forzato, dialoghi alla stregua dei cartoni che passano su K2, troppa ironia e personaggi stravolti nella loro natura (il cazzeggiare della Misty attuale è insopportabile e la Natalie di Juliette Lewis è lasciata completamente ai margini della storia se non per il fatto che sarà lei stessa a portare il gruppo alla comune di Lottie). Comunque sia, per le premesse che c’erano, gli sviluppatori Ashley Lyle e Bart Nickerson hanno davvero fatto i miracoli. Sotto con la terza, appena finirà lo sciopero degli sceneggiatori. Altrimenti F4 e tutti basiti. (Marco Belardi) 

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