R.I.P. Cormac McCarthy [1933-2023]

Da ragazzo, approcciando la letteratura adulta una volta uscito dall’alcova sicura dei vari Salgari e Verne, mi chiedevo spesso come dovesse essere vivere nell’era dei giganti di cui divoravo le pagine, quale sensazione potesse suscitare la consapevolezza di condividere gli stessi anni di un Dostoevskij o di un Conrad. Ho avuto la risposta parecchio tempo dopo, inseguendo le orme dello sbandato senza nome di Meridiano di Sangue, a cui arrivai più per la mia passione verso un certo tipo di western crepuscolare alla Peckinpah che per l’influenza dell’establishment culturale americano che all’epoca iniziava a volgere lo sguardo oltre i confini delle grandi metropoli.

Anche perché Cormac McCarthy, spentosi ieri nella sua casa di Santa Fe all’età di 89 anni, da quel sistema era stato sempre distante, schivo e refrattario alle luci della ribalta come tanti dei personaggi nati dalla sua penna. Un modus vivendi che all’inizio degli anni 2000 fece da sorprendente contraltare al suo successo su scala prima nazionale e poi mondiale, ancora più sorprendente considerando i temi affrontati e il modo in cui McCarthy li affrontava. Una prosa cruda, brutale, sanguigna, pressoché priva di punteggiatura. Storie di disperati ai confini del mondo, immersi in una natura costantemente nemica e alla ricerca di una redenzione quasi sempre impossibile. L’idea di un Sud come frontiera dell’anima, luogo metafisico prima che reale, emblema di una modernità in balia della violenza e in cui l’unica legge vigente è quella del più forte, dove gli ultimi barlumi di speranza resistono negli affetti familiari o nella fede in un Dio la cui sorda presenza aleggia su tutti i lavori di McCarthy. Una narrativa per certi versi doom, come testimoniato da quanti nel mondo della psichedelia pesante ne abbiano tratto ispirazione: basti pensare agli Earth, i quali intitolarono ogni brano del loro capolavoro Hex; Or Printing In The Infernal Method con citazioni di Meridiano di Sangue.

Fu proprio la scrittura secca e drammaturgica tipica di McCarthy, colma di lunghi dialoghi, il trampolino per Hollywood, che si ritrovò tra le mani sceneggiature praticamente già scritte e trasponibili senza necessità di stravolgimenti sul grande schermo. Certo, anche fuoriclasse del settore come i fratelli Coen dovettero arrendersi all’impossibilità di rendere visivamente il senso di ineluttabilità maligna incarnato da Anton Chigurh, lo spietato assassino vero protagonista di Non è un paese per vecchi, che il clownistico taglio di capelli imposto a Javier Bardem rese inevitabilmente privo di quella malvagità ancestrale che trasuda dalle pagine del romanzo. In seguito ci provarono anche Ridley Scott (The Counselor), James Franco (Child of God) e John Hillcoat (The Road), quest’ultimo accompagnato nell’impresa dal tocco musicale di Nick Cave. Un’impresa, quella di Hillcoat, ben più ostica rispetto a quella dei suoi colleghi, perché La Strada è il testo forse meno criptico di McCarthy ma al contempo è quello incredibilmente più difficile da astrarre dalla sua dimensione intimistica, e il suo adattamento cinematografico rappresentava una sconfitta in partenza.

Già, La Strada. Il caso, o forse più probabilmente la Provvidenza, ha voluto che lo riprendessi in mano la scorsa estate e che la sua rilettura mi accompagnasse mentre perdevo un genitore e, a distanza di qualche giorno, diventavo a mia volta genitore. McCarthy aveva letteralmente trascritto dialoghi reali tra lui e suo figlio in una storia di sopravvivenza al limite della civiltà, di amore filiale oltre la fine, di speranza contro ogni speranza, e l’abbagliante verità di quelle pagine, il loro senso più profondo, mi è apparso solo in quel momento, insieme alla percezione della straziante bellezza di cui la vita, la morte e il loro racconto nella sua forma più alta sono costituite. E ho risentito l’eco della risposta già evidente anni prima, quando leggendo Meridiano di Sangue avevo compreso che quella che mi scorreva davanti agli occhi era l’opera del più grande scrittore del nostro tempo e che la consapevolezza di vivere nella sua stessa epoca poteva generare solo una sensazione: eterna gratitudine.

«Ce la caveremo, vero, papà?
Sì. Ce la caveremo.
E non ci succederà niente di male.
Esatto.
Perché noi portiamo il fuoco.
Sì. Perché noi portiamo il fuoco.»

4 commenti

  • Avatar di Bonzo79

    Morto senza il premio Nobel che già da decenni avrebbero dovuto recapitargli a casa, vestiti di sacco e con una torta da 15 kg per scusarsi del ritardo. Siano maledetti fino alla settima generazione.
    Un gigante. Anche se Meridiano di sangue non mi è piaciuto. Ma la Trilogia, Non è un paese per vecchi e La strada sono perle di un percorso letterario e filosofico coerente e inesorabile, in cui la frontiera è sempre meno fisica e più morale e spirituale. Un gigante, ripeto.

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  • Avatar di Fanta

    È capitato anche a me di perdere un genitore mentre diventavo genitore, ormai dieci anni fa.
    Non è vero che portiamo il fuoco, ma dobbiamo imporci l’obiettivo di credere sia possibile trasmetterne il segreto.

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  • Avatar di Carolina84

    La Strada è un libro doloroso, che inquieta, ti lascia fantasmi dentro per settimane. E forse da qui capisci la grandezza dell’autore.

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  • Avatar di Matteo

    Leggete Suttree, sciocchi!

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