TRIBULATION – Where the Gloom Becomes Sound

Ve li ricordate? Erano i fantastici anni ‘60!”.

Non so se fosse una prerogativa delle televisioni locali del Lazio, ma nei primi 2000, tra una televendita di Maurizia Paradiso che ci parlava delle “selle dei cosacchi” e piazzisti di prodotti che assicuravano migliori performance sessuali grazie a non meglio identificati ingredienti naturali (e segreti), un must irrinunciabile era la televendita della compilation su più cd dei successi anni ’60. Si trattava di un greatest hits di una banalità imbarazzante, indirizzato, probabilmente, a vecchi e nostalgici hippie che hanno perso le proprie collezioni di vinili nel corso dei decenni e che vogliono ricordare il passato mentre viaggiano nelle loro station wagon per un sabato all’Ikea con la famiglia (semicit.).

Questa premessa serve ad introdurre la prima – erronea – impressione che ho avuto ascoltando il nuovo album dei Tribulation.

Gli svedesi, infatti, allontanandosi via via dal death melodico degli esordi, hanno abbracciato sonorità sempre più vicine ad un certo gothic metal anni ’90, raggiungendo il perfetto punto di equilibrio tra le diverse anime della band nel precedente, straordinario, Down Below, un disco capace di riconciliarti con l’universo.

Where the Gloom Becomes Sound (titolo fichissimo, tra l’altro) segue l’evoluzione del discorso intrapreso nel lavoro precedente e, come era lecito aspettarsi, si distacca ancor di più dalle sonorità più estreme che hanno contraddistinto la prima parte della carriera del gruppo, per spostarsi – quasi – completamente in un certo gothic (e, di rimando, nella dark wave richiamata dal genere).

E all’inizio, vuoi perché il disco (pur avendo singoli estremamente efficaci) è comunque decisamente meno immediato del precedente, vuoi per un certo mood – volutamente – uniforme, la prima impressione è stata quella di un (comunque riuscito) bignami del gruppo, con meno picchi del solito e  un sound che ti fa dire: “ve li ricordate? Erano i favolosi anni ’90! La Century Media, Waldemar Sorychta… Sono tornati!”.

E non ci sarebbe nulla di male, visto che quando i pezzi ci sono potrebbe anche andare bene così, ma fermarsi a questo livello significherebbe fare un torto ai Tribulation, perché l’album risulta essere decisamente più ricco e profondo. In effetti la sottile complessità della scrittura dell’album è ravvisabile sin dall’iniziale, splendida, In Remembrance, contraddistinta da una lunga intro minimalista che poi sfocia in un efficacissimo mid-tempo con un ritornello che si stampa in testa sin da subito e che apre la strada al primo singolo, The Hour of The Wolf, capace di far muovere il culo anche a un morto.

Perché il trademark della band di Anderson e Hutlén (che ha lasciato il gruppo con questo disco) è sempre stato quello di riuscire, indipendentemente dal genere proposto, a giocare sul contrasto tra le linee melodiche e il growl di Anderson, e anche questo Where the Gloom Becomes Sound non fa eccezione. 

Ciò che sorprende è che in un sound (anche a livello di missaggio e produzione) che richiama la più volte citata epoca d’oro di un certo gothic metal, trovano spazio, più che in passato, sonorità metal anni ’80 (NWOBHM in particolare) e hard rock settantiano, soprattutto a livello di riff e di assoli.

Sonorità che più si va avanti con gli ascolti più risultano avere un impatto importante sul suono del gruppo, come accade nella ritmata Daughter of the Djinn e in Funeral Pyre, due dei migliori brani del disco. Un impatto che si avverte anche nelle canzoni più classicamente gothic, come l’ottima Leviathan, impreziosita da passaggi tipicamente ottantiani che la rendono estremamente personale e riuscita.

Perché, con maggiori e più attenti ascolti, Where the Gloom Becomes Sound conferma quello che è il miglior pregio dei Tribulation, quantomeno da The Children of the Night in poi: inglobare nel proprio sound diverse sonorità, senza cercare di mascherare l’influenza di band e artisti di riferimento, riuscendo, però,  ad elaborare il tutto in un modo estremamente personale da suonare come qualcosa di immediatamente riconoscibile  e riuscendo, altresì, a scrivere ritornelli che, molto prosaicamente, spaccano davvero il culo.

In definitiva un nuovo centro per gli svedesi, che pur non raggiungendo i livelli di Down Below (per chi scrive, una delle migliori uscite in ambito metal degli ultimi anni), rappresenta un’ulteriore conferma del loro talento. (L’Azzeccagarbugli)

Un commento

  • Non è che voglio spaccare il capello in quattro e alla fine sti cazzi, eh, però lo vedo più un connubio ben riuscito tra deathrock, sprazzi di metal classico e occult rock settantiano. Gothic metal non ce ne rintraccio affatto, soprattutto perché una matrice doom loro non ce l’hanno mai avuta. E quindi decade pure la questione gothic metal.

    Bel disco comunque, peccato per Hultén che se n’è andato con l’illusoria idea di sfondare da solista.

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