MUSEO ROSENBACH – Barbarica (Immaginifica)
Per festeggiare il grande ritorno della rubrica ContrAppunti Prog, i Museo Rosenbach hanno deciso di pubblicare un nuovo disco, a quarant’anni esatti dal loro primo lavoro in studio. E non parliamo della classica operazione nostalgia, con uno dei vecchi membri del gruppo che si circonda di ragazzetti più o meno sconosciuti. Qui parliamo del nocciolo duro dei primi Museo Rosenbach, quello composto da Golzi, Galifi e Moreno, riuniti per dare un seguito a quell’immenso capolavoro che è Zarathustra, censurato dai circuiti teleradiofonici e boicottato dal movimento della controcultura per via dell’ormai celebre busto di Mussolini in copertina e per i riferimenti al Superuomo. Proprio da Golzi, che pure potrebbe tranquillamente dedicarsi soltanto ai Matia Bazar, è partito il pressing per far rientrare il cantante storico, col quale Zarathustra è già stato ri-registrato e pubblicato in versione studio live neanche un anno fa.
L’errore principale che si può commettere ascoltando e giudicando Barbarica è quello di metterlo a paragone col suo illustre predecessore; l’unico filo che lega i due dischi, volendo compiere una autentica forzatura, riguarda i testi. Zarathustra poneva al centro del discorso una società composta da individui omologati e fedelmente ciechi ed obbedienti ad astratti concetti di fede. Il ritorno alla natura, la cui ambigua interpretazione – inteso in senso evoliano o più semplicisticamente come le comuni hippy – è annoverabile tra le cause di censura di cui sopra, cozzava con lo sguardo profondamente pessimistico delle ultime strofe del disco, dove prende il sopravvento la rassegnazione per un destino ineluttabile.
Barbarica riprende questo pessimismo di fondo, rivisitandolo in una versione pacifista-ecologista più adatta al periodo attuale. La guerra, la distruzione degli ecosistemi naturali, l’innata incapacità degli esseri umani di convivere senza arrivare a scannarsi, questi sono i temi che, vagamente, possiamo far confluire in entrambi i dischi. Stop.
Tutto il resto non è neanche lontanamente paragonabile perché non ha senso mettere a confronto un’opera concepita da ventenni alle prime armi, in un contesto di fermento culturale come potevano essere gli anni settanta agli abori del decennio, con un disco composto da maturi compositori che hanno esigenze espressive decisamente diverse oggi.
E Barbarica, volendo analizzarlo in modo del tutto asettico e sospendendo le categorie di spazio e tempo, è un disco migliore di Zarathustra. C’è una tale ricchezza di sfumature, di suoni, di emozioni che non si può non rimanerne affascinati. Il quarto d’ora della suite iniziale, Il respiro del pianeta, non ci prova nemmeno a “riportare alla mente” qualcos’altro dal passato: è semplicemente bella così com’è, sia che siate nostalgici appassionati del prog nostrano che fu, sia che questo sia il primo disco prog ascoltato in vita vostra. E poco importa se nei quaranta minuti complessivi c’è qualche leggero calo (Abbandonati paga un testo fiacchetto ed una struttura tutto sommato piuttosto convenzionale) perché tutto l’album viaggia su livelli veramente impressionanti, come lasciava appena intuire il singolo La coda del Diavolo. Ovviamente Zarathustra nasceva da presupposti diversi ma occorre mettersi l’anima in pace: la maggior parte di noi (intesi come individui che abbiano in qualche misura a che vedere con questo blog, sia in veste di redattori che come lettori) nel 1973 non c’era e se c’era, al massimo si preoccupava di non cadere dal seggiolone. Negli anni scorsi, reunion di gruppi storici (come Metamorfosi o Locanda delle Fate) sono passate quasi completamente inosservate per una serie di motivi, dal numero sovrastimato di effettivi cultori del genere alla tendenza a cristallizzare il passato rifiutando il presente. Vedremo se la qualità di Barbarica e la caratura, anche in termini di popolarità, dei personaggi in causa smuoverà le cose in una direzione positiva. (Matteo Ferri)

Dal primo ascolto su Spotify, devo dire che: album della Madonna.
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Barbarica è un disco eccellente, perfettamente collocato nella realtà e, al contempo, fedelmente progressive italiano, come solo il Museo e qualcun altro seppero fare. E’ un capolavoro di equilibrio: in continuità con Zarathustra, pur suonando completamente nuovo e ad altissimi livelli.
Volendo trovare una pecca, la produzione: chitarre spesso troppo “impastate” in un “muro del suono” alla Phil Spector, dal quale persino le tastiere a tratti faticano ad emergere.
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