Noumeni: il black metal latino americano (seconda parte)
CILE
Il Cile è un paese strano, dalle distanze improbabili e dai paesaggi mozzafiato ma quasi completamente estraneo a tutte quelle lotte etniche che caratterizzano gli stati andini; la popolazione è quasi interamente di origine europea e a livello di indicatori socio-economici è assai più avanti anche di diversi paesi industrializzati. Insomma, se non fosse per quel dettaglio delle placche tettoniche che ogni tanto ne scombinano un po’ la geografia, sarebbe quasi una sorta di Norvegia dell’America Latina con tanto di regioni glaciali e rivendicazioni territoriali coi vicini. Tutto questo benessere non può che avere una ripercussione a livello musicale: essendo di discendenza europea, i cileni non possono incazzarsi contro gli europei invasori che hanno devastato la cultura indigena ed essendo considerevolmente benestanti, se rapportati alla maggior parte degli altri paesi del Sudamerica, non possono neanche dare sfogo alla rabbia repressa contro un sistema che non funziona. La conseguenza è che il black metal cileno gode spesso di produzioni a livello dei migliori gruppi del Vecchio Continente, ma i musicisti trattano quasi sempre temi inimmaginabili per noi comuni mortali abituati ad usare Unholy Paragon degli Tsjuder come sveglia. È il caso di tale Furufuhué, un tizio talmente innamorato della sua terra da andarsi a scegliere il nome di un personaggio mitologico che, a quanto pare, rivive soltanto nei racconti di uno sparuto gruppo di indios al confine con l’Argentina. Per evitare che il mito si estingua prematuramente, sforna tra i tre e i cinque demo all’anno coi suoi due progetti solisti, tutti autoprodotti e decisamente amatoriali, nell’accezione denigratoria del termine. Sia che li firmi col monicker Beqanatas, sia che li firmi come Lapageria Rosea, il risultato è sempre un black metal pesantemente influenzato da Summoning, Arckanum e, da bravo osservatore della scena, non si è fatto mancare neanche qualche strizzatina d’occhio agli Alcest. Tendenzialmente sarei portato a non consigliarlo neppure a chi ascolta i Sum 41 convinto che siano un gruppo punk, però uno che scrive testi come “posso sentire l’ambiente che c’è / attraversando tra gli alti alberi / mi danno la forza per vivere/ la mia esistenza, con dignità” va almeno studiato come fenomeno di costume, così come il Proyecto Ibex. Si sa poco o nulla di questo fantomatico progetto, presentato come “black death sperimentale” quando, in realtà, la presunta sperimentazione starebbe nell’utilizzo di una drum machine, evidentemente una novità per il Cile. Siccome proprio pochi giorni fa si parlava di caproni, mi sembra doveroso segnalare il logo del Proyecto Ibex, che mi pare siano un po’ la risposta latina all’ironia bolognese dei Malnàtt. Almeno spero.
Avanzando di qualche gradino in una ipotetica scala di merito e qualità, ecco che incontriamo Dies Irae (nessuna parentela coi polacchi), autori del discreto Mil Martillazos de Ira. I ragazzi sono ancora piuttosto acerbi in alcuni passaggi ma denotano un discreto gusto nelle aperte melodiche, piazzano due o tre pezzi davvero niente male e pubblicizzano i loro concerti sulla tv cilena, mentre noi discutiamo sull’opportunità di trasmettere o meno Baila. Piaceranno agli amanti dell’underground più oltranzista, invece, gli Horns, un duo che ha dalla sua parte un uso arditissimo del tedesco e riff ossessivi al limite del depressive pronti a deflagrare in bordate micidiali. L’ultimo disco si intitola Im Schein Trüben Kerzenlichts, dura un’ora ed è un deciso passo avanti rispetto a Dominvs Umbraes uscito nel 2009 e molto più confusionario tanto nelle idee quanto nella realizzazione. Niente a che vedere con Man Has Killed God, l’ultimo degli Unblessed nonché uno dei migliori dischi metal prodotti in Cile, scelta resa ancor più facile dalla quantità circoscritta di album ascoltati. Al di là delle considerazioni numeriche, è piuttosto chiaro che il quartetto di Santiago sia una spanna sopra agli altri con la loro commistione tra black metal intransigente e un death muscolare alla Vader. A loro favore, oltre alle innegabili doti tecniche, anche una produzione veramente all’altezza della situazione e una cura maniacale nei dettagli, la stessa che contraddistingue la proposta pazzoide dei Twilight Mist, un po’Atrox e un po’ Borknagar ma desaparecidos dopo un solo demo, In The Fall of Existence, pubblicato quattro anni fa. Infine, sempre per la sottorubrica “folklorismo e fastidio”, mi preme segnalare un paio di gruppi significativi per comprendere certi approcci bizzarri al genere: i Black Moon e gli Antü Fucha, fieri portabandiera delle tradizioni mapuche nel black metal. Per farla breve, questi mapuche sono un popolo indigeno, ridotto a poche decine di migliaia di unità, che vive nelle zone a sud del paese e che utilizza la musica quasi esclusivamente per inneggiare al sacro. Niente di male, se non fosse che la quantità di strumenti tipici è limitatissima ed i suoni sono tutto fuorché adatti ad essere usati in un disco metal. Ed infatti né i Black Moon né gli Antü Fucha ne fanno neppure lontanamente uso visto che i primi si dedicano anima e corpo all’estremismo caciarone mentre i secondi non suonano altro che un black tendente al depressive. Grazie a questi ultimi, però, apprendiamo che il canto del queltehue (che, salvo ambigui significati di cui non sono a conoscenza, è un uccello tipico del Cile) è straordinariamente simile allo screaming di Wrest dei Leviathan: almeno per mero scrupolo, si impone un viaggio da quelle parti per fare birdwatching.
COLOMBIA
Non so se vi è mai capitato di scambiare due parole con un/a colombiano/a: l’autorappresentazione che fanno del loro paese assume sempre toni epici, grandiosi, da nazionalismo genuino. E poco importa se ci sono le Farc, i narcos, le percentuali di omicidi nelle città costantemente in doppia cifra o i ragni grandi quanto un labrador che scorrazzano nella giungla (ma non escludo che trent’anni di aracnofobia conclamata possano aver parzialmente modificato la mia percezione circa le loro dimensioni reali), tutti questi insignificanti dettagli passano inesorabilmente in secondo piano di fronte al resto. Tradotto in musica, la Colombia ha una scena metal organizzata in modo quasi professionale, con tutti i limiti del caso. Radio dedicate, eventi organizzati, perfino qualche webzine, che messa così può sembrare una cosetta da poco ma se fate il paragone con gli altri paesi della zona noterete che non lo è affatto. Quello che caratterizza la scena colombiana, così come in generale tutto l’approccio al metal in America Latina, è una ortodossia ai limiti dell’intransigenza, il che da un lato ha l’innegabile vantaggio di essere guardata con rispetto da tutti quelli che fanno riferimenti astratti al “vero spirito underground”, dall’altro ha lo svantaggio di costruire una proposta musicale che non ha nulla di realmente personale, andando ad attingere a piene mani dalle esperienze altrui. È il caso degli Essbat, due fini esteti vestiti come Guzzanti in versione massone, autori di tre dischi (l’ultimo, El Retorno del Imperio Satanico, uscito due anni fa) dalle track list interscambiabili o dei Liturgia, curiosamente anch’essi autori di tre dischi e sempre dalle track list interscambiabili. Un passettino più avanti si collocano i Geburah, col loro black metal fatto di atmosfere rarefatte e qualche sporadico inserto arabeggiante che fa capolino qua e là nel primo e per ora unico album, Sephiroth, ma comunque nulla di trascendentale. Più interessanti i Beelzebul, attivi fin dal 1994 e forieri di un black’n’roll muscolare che puzza di benzina e polvere da sparo. Peccato per la scarsa prolificità compositiva, il recentissimo Lies of God esce a più di dieci anni di distanza da The Powerful Essence of Lucifhtian in Times of Obscurantism e ha, almeno, il pregio della sintesi nel titolo. Personalmente gli preferisco decisamente di più i Nosferatu, forse perché il riff di Time to Kill è sorprendentemente identico a quello iniziale di Dio è solo merda dei Cripple Bastards o forse perché nascondo una latente passione per il black metal sinfonico ma non riesco a fare il definitivo coming out. Fatto sta che The Sign of the Undead è un buon disco, compatto e granitico, con diversi momenti di angosciante malignità e qualche passaggio a vuoto che non ne pregiudica il giudizio positivo finale.
Ma non possiamo chiudere un pezzo sul black metal colombiano senza parlare della scena nsbm. Sì, avete letto bene, esiste una scena nsbm colombiana e no, in spagnolo non è l’acronimo di Nuestro Señor el Black Metal ma ha proprio lo stesso significato che siamo soliti utilizzare qui. Possiamo avanzare il sospetto che si tratti di qualche pronipote di qualche gerarca ripiegato in America Latina per sfuggire alle aule di Norimberga, ma resta il fatto che questo ossimoro vivente chiamato national socialist black metal colombiano esiste ed ha negli Hastur e nei Dark Wisdom Horde gli alfieri più rappresentativi. Hastur è una one man band di un burlone ispanico che si cela dietro lo pseudonimo di Sigfried (sic!) e ci delizia perfino con una cover di Hail and Kill, per suggellare il fallimento totale e assoluto di qualsiasi fenomeno di globalizzazione musicale. La seconda band ha il vantaggio di essere molto meno amatoriale e approssimativa, anche in merito alla semplice esecuzione dei brani, e di aver appreso in pieno ciò che il manuale della perfetta band nsbm ci insegna, ovvero negare, negare, negare. Non sono loro ad essere filonazisti, siamo noi ad essere maliziosi se avanziamo qualche sospetto sul logo con l’aquila imperiale esattamente identica allo stemma del Terzo Reich o se dubitiamo della natura meramente filosofica di testi che parlano di sangue, guerrieri e purezza della razza. Sono certo che Rob Darken non veda l’ora di poter organizzare un simposio culturale con loro in cui poter discutere del pensiero di Julius Evola rispetto ai nuovi modelli di società multietnica (continua…). (Matteo Ferri)
Per la prima parte (Perù e Bolivia) clicca qui.





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