16 – “Curves That Kick” / “Drop Out” (Relapse)

Come giustamente rimarcato dall’analitico Fabrizio “er Doom” Socci qualche post più sotto, la Relapse avrà anche perso ben più di un colpo sul versante delle nuove uscite ma quando si tratta di ristampare ha pochi rivali al mondo. Dopo il definitivo Cold River Songs dei Bodychoke (graziato peraltro di una copertina ben più malsana e disturbante dell’originale), la discografia completa degli sfigatissimi Nirvana2002 e World Without God dei Convulse (autentici capisaldi, assieme ai parimenti geniali Xysma, di quell’inaudito sommovimento dell’underground che è stata la scena grind’n’roll finlandese nei primi ’90) è il momento di dissotterrare un altro culto fieramente marginale e nonostante tutto indimenticato (dai dissociati) riesumando i primi due album dei 16. Californiani, mezzi tossici e presi male a bestia, esordiscono nell’autunno del 1992 con il doppio 7″ Doorprize, registrato in un giorno, in copertina una bella sei colpi ancora da caricare (di fianco ci sono un paio di proiettili); il disco cattura l’attenzione del dissociato D.O.C. Pushead, che li scrittura per la sua marcissima etichetta Bacteria Sour e firma pure l’artwork (qui riproposto in tutto il suo ripugnante splendore) dell’esordio a lunga durata Curves That Kick, pubblicato su CD e 10″ (con due pezzi in meno) nell’autunno successivo. Il contenuto è di quelli che non si dimenticano, impossibile da raccontare se non come la perfetta combinazione tra sludge, noise rock, doom e hardcore, qualcosa di non dissimile da quanto proposto – peraltro negli stessi anni e negli stessi ambienti – dagli amici Grief (con cui condivideranno un paio di split EP e diversi tour) ma più virato verso un irriferibile crossover tetro, oppressivo e malmostoso, governato da linee di basso pesanti e ferali come macigni in caduta libera; su tutto si stagliano le allucinanti vocals da serial killer depresso di Cris Jerue, paroliere di raro talento visionario, capace di spingere al suicidio il più inguaribile degli ottimisti con giusto due/tre parole messe in fila come soltanto lui e gli Unsane di Occupational Hazard hanno saputo fare. Dopo una serie di singoli e split EP (alcuni dei quali raccolti nella compilation giapponese Preoccupied), i 16 passano su Pessimiser e nel 1996 esce quello che, assieme al successivo Blaze of Incompetence, rimane il loro capolavoro assoluto nonché tra i lasciti più significativi nel corso della musica pesa degli anni novanta: Drop Out apre con il pezzo-simbolo della band, quello con cui da allora in poi verranno, volente o nolente, immediatamente identificati. Trigger happy contiene il ritornello su cui molti di noi emarginati, deboli e umiliati abbiamo pianto lacrime amare da adolescenti: basso preponderante, un crescendo monumentale poi “Life sucks, leave me alone” scartavetrato, ripetuto infinite volte con la voce che probabilmente aveva Charles Whitman poco prima di salire sulla torre. Anni più tardi avremo imparato che in realtà il testo parlava di quanto fosse figo uccidere le troie a revolverate; ma intanto quel “Life sucks, leave me alone” ci era rimasto marchiato a fuoco nel cervello condizionando irrimediabilmente la nostra visione del mondo e delle cose. Il resto dell’album è pienamente all’altezza di un’opener tanto drastica e radicale: i soffocanti singoli Pumpfake e Tocohara, la vendicativa Sniper (credo che il testo parlasse di un bambino violentato), la cantilenante, sordida, montante follia di Felecia, la scheggia di ultraviolenza psicosomatica Fucked for life (prego notare il titolo), la drogatissima Bloody knuckles (con liriche che Mike Williams ucciderebbe per scrivere), l’uno-due febbrilmente vaticinante Butterfly labes/Seeds and stems e la conclusiva, terminale 16 (sorta di Feel good hit of the summer però presa male e un lustro buono prima dell’originale) con tanto di coda a base di sample delirante probabilmente estrapolato da un orribile CD di paccottiglia “new age” di quelli che cercavano di rifilarti a tradimento in edicola, tutto quanto concorre a formare un catalogo di atrocità tra i più impressionanti mai subiti, un disco che ridefinisce fin dalle fondamenta concetti come pesantezza, violenza, sludge e stare male. I 16 sono tornati tra noi, dopo uno scioglimento durato tre anni tra il 2004 e il 2007, con un nuovo album (Bridges to Burn, 2009, sempre su Relapse) e un tour mondiale che, nel marzo scorso, li ha portati per la prima volta nella loro carriera in Europa. Sono passati anche in Italia, per un paio di date da una quarantina di spettatori a dir molto per botta. Il rispetto, già ai massimissimi livelli, aumenta esponenzialmente. (Matteo Cortesi)

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