Frattaglie in saldo #74

Gli IMPERISHABLE sono un un gruppone composto da tre pesi massimi del death americano: Alex Rush degli Olkoth (se non avete ascoltato il loro disco vi consiglio di farlo subito) al basso, Brian Kingsland dei Nile alla chitarra e voce e Derek Roddy (precedentemente con Hate Eternal, Nile, Malevolent Creation e mille altri) alla batteria. Si sono messi assieme per fare quello che sanno fare meglio: spaccare i culi. Lo fanno attraverso un death black tutto sommato vario e non solo pestone. Vengono alla mente gli Hate Eternal nelle parti più tirate e death, e gli Emperor nella parti più lente e liriche, vedi la traccia Iniquity. Tutto il disco, dal titolo Revelation in Purity, è permeato di quella sensazione di grandeur che solo chi ha una totale consapevolezza dei propri mezzi può avere. Un po’ come gli Olkoth di cui sopra, appunto. Gli Imperishable tirano fuori insomma un disco di immediato, fico, divertente e anche dal suono moderno. Io la butto lì, si sa mai che qualche organizzatore legga questo articolo: e se facessero un tour con gli Olkoth?

I FLESIA sono un trio tedesco la cui particolarità è quella di suonare black metal senza chitarre. Sono infatti composti da voce, batteria e basso. Che non so come venga tecnicamente spippolato in studio per rendere quel suono così. Sta di fatto che suona assolutamente coerente col genere. Dopo un disco d’esordio e un EP carini ma nella media, con questo secondo disco dal titolo Achterbahnekstase cambiano approccio. Le canzoni si fanno molto più lunghe, tanto che l’album ne contiene solo tre, rispettivamente di 11, 13 e 14 minuti. E in tutti quei minuti i Flesia trovano finalmente la loro dimensione compositiva. Il loro è un suono denso, ossessivo, ipnotico ma non annichilente. Senza chitarre, inoltre, non può che essere un suono più monotono ma, intelligentemente, anziché tentare di compensare la mancanza delle sei corde la estremizzano: estremizzano la monotonia. Al basso serve tempo per creare delle sfumature, e i Flesia se lo prendono. La monotonia serve a creare tensione, lasciando che ogni minima variazione emerga all’ improvviso, un’incrinatura nel flusso. Questo è il contrasto sul quale è stata costruita l’identità stessa del disco. Ottima poi la produzione del belga Tim De Gieter, eclettico ex bassista dei fenomenali Amenra, che Charles definì nientemeno che “un gruppo enorme”. Ecco, io fino ad ora li ho definiti black metal, ma se ascolterete questo disco, e ve lo consiglio caldamente, vi accorgerete quanto sia piuttosto distante dall’ idea di black metal, appunto. C’è qualcosa di più. Io ho come l’impressione che i Flesia in futuro ci regaleranno grandi soddisfazioni.

Rimanendo a parlare di gente che ama fare cose strambe e lavorare ai confini dei generi parliamo dei VEILBURNER. Longing for Triumph, Reeking of Tragedy è il titolo di questo loro ottavo album, uscito a distanza di solo un anno dal precedente. Al duo americano piace il simbolismo, quindi, essendo questo l’album numero otto, il concept del disco è l’infinito ciclo di morte e reincarnazione che intrappola i protagonisti della storia in un susseguirsi di sofferenza e di altre cose esoteriche. Rispetto al disco precedente qui i tempi rallentano, fino a esplorare momenti death doom davvero niente male. Ora, ad alcuni i Veilburner non piacciono per via di quella che viene definita una produzione piatta e una drum machine fin troppo secca e quantizzata. Per come la vedo io, i Veilburner non possono non suonare così, almeno in questa fase della loro evoluzione artistica. Il loro suono DEVE essere freddo e quasi del tutto deumanizzato per rispecchiare quella malvagità che vuole rappresentare.

Observance è il quarto disco dei PRIMITIVE MAN ed è un lavoro che spinge ancora più in profondità l’estetica estrema del trio di Denver. L’album oscilla tra devastazione sonora e momenti di quiete, creando un viaggio sonoro fatto di alienazione, fallimenti sociali e tensioni. Al di là di queste solite cose che si dicono su di loro, sempre giuste, ci mancherebbe, c’è da dire che è un disco profondamente e attualmente americano. Se provate a leggere i testi vi accorgerete che i Primitive Man non le mandano a dire, e dedicano pure un brano, Transactional, direttamente al loro presidente. Altri brani come Seer e Social Contract incarnano altrettanta furia politica e personale, mentre pezzi più atmosferici come Natural Law introducono sfumature psichedeliche e malinconiche. Il disco è ben fatto e molto dettagliato. Forse è il migliore della band. Tuttavia, il misto di doom, sludge, death è molto pesante da sopportare, emotivamente parlando. Non è proprio un disco per tutti i giorni. Per cui se siete già loro fan vi sorprenderà; se non lo siete, nonostante sia lievemente meno cupo dei suoi predecessori, non credo vi farà cambiare idea, comunque. Ma, ehi, vista la situazione mondiale attuale si sa mai. (Luca Venturini)

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