Avere vent’anni: THE DARKNESS – One Way Ticket to Hell… and Back

Pensare che questo album abbia già venti anni mi fa sentire molto vecchio. Lo ricordo come una delle mie prime delusioni musicali, dato che Permission to Land è stato, ed è ancora, uno dei miei album preferiti di sempre. Nonostante a quel tempo fossi in piena fase Judas Priest, guardavo ancora Mtv durante i pomeriggi passati a consumare PES sulla Playstation, e ricordo che i The Darkness, con quei tre o quattro singoli perfetti, mi stregarono al punto di correre al negozio di dischi a comprare l’album intero. Mi piaceva talmente tanto che, attenzione, mandai una lettera al Metal Shock cartaceo chiedendo al sommo Trainspotting cosa ne pensasse. Ricordo anche che dedicai una compilation delle “mie” canzoni alla ragazzina della classe accanto di cui ero cotto marcio, ragazzina a sua volta innamorata di un tamarro col Fifty che nel tempo libero spacciava e picchiava la gente allo stadio. Forse rendendomi conto che gli Iron Maiden e i Dream Theater fossero un po’ troppo per lei, abituata a Eros Ramazzotti, inserii anche un paio di pezzi di quell’album. Capite che le aspettative per il secondo album erano altissime.

Ovviamente rimasi deluso: già dal primo singolo omonimo capii che la magia era finita. Non che fosse brutto, ma mancava quel suono che mi aveva fatto amare il primo. Permission to Land aveva una leggerezza tutta sua, una delicatezza, una sensibilità romantica, e allo stesso tempo una durezza e una cazzimma che portava davvero una ventata di aria fresca nel rock mainstream di quel periodo. Si presentarono al mondo con un cantante vestito di una tutina rosa che cantava solo in falsetto, riuscendo a farsi prendere sul serio senza risultare una caricatura. Un equilibrio molto fragile, in effetti, da poter mantenere a lungo.

Riascoltando One Way Ticket to Hell… and Back dopo venti anni rimango più o meno della stessa opinione di quando ero un imberbe ragazzino brufoloso: sicuramente si fa apprezzare più di quanto fece all’epoca, tutto sommato rimane un album piacevole, ma comunque un passo, o anche due, indietro rispetto al debutto. D’altronde non si sono mai più ripetuti a quel livello.

Manca il suono arioso, pulito, delicato, acustico. Mancano le linee di basso allegre. Manca una direzione precisa, delle idee forti. Il singolo omonimo cerca di mantenere il senso, ma non ha la stessa forza di una I Believe in a Thing Called Love. Stessa cosa si può dire di ogni singola canzone se confrontata col precedente.

L’album parte con una prima parte un po’ più stupidina e leggera, poi cresce nella seconda, con la sorprendente Baldpezzone hard rock che si prende finalmente sul serio almeno a livello strumentale. Sarebbe stato un comprensibile disco di assestamento, se si fossero riusciti a ripetere ad alti livelli anche dopo. Invece ci rimane una band dignitosa, che ha fatto il botto subito, raggiungendo il suo apice, mantenendo poi una onesta carriera di gestione dal vivo, dove mi dicono che siano parecchio forti.

Gli vogliamo bene lo stesso, dai. (Alessandro Colombini)

2 commenti

  • Avatar di Simone Amerio

    Come per il buon Colombini pure io rimasi deluso da questo disco a parte lo spassoso video associato al singolo di lancio.

    Peccato perché Permission to Land era ed è un disco pazzesco.

    Visti dal vivo ne tour di quel disco e furono veramente divertenti

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  • Avatar di Ignazio

    I dischi post reunion sono incredibilmente migliori del fiacco One Way Ticket in cui, a parer mio, metà della musica non lascia il segno e la produzione è troppo ripulita. Ascoltare Last Of Our Kind, Pinewood Smile o Motorheart per credere.

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