KING GIZZARD & THE LIZARD WIZARD – Phantom Island
Relazione d’archivio, datata 12 aprile 2197 – Deposito Fonografico Interstellare. Sezione C: Musiche Terrestri, Periodo Tardo-Analogico, fascicolo #KGLW-PI-25.
Il suono è una forma di sopravvivenza. Ciò che resta dopo che tutto il resto è passato.
Quando nel 2197 parliamo dei King Gizzard & the Lizard Wizard, si fa come si farebbe oggi di certi oggetti votivi scomparsi: un reperto, una reliquia. L’album Phantom Island, riascoltato oggi grazie a una rara copia magnetica sopravvissuta alla Decadenza Digitale del secolo scorso, appare come un documento complesso e commovente, un testamento involontario di un tempo in cui la musica era analogica e poteva ancora essere viaggio, maschera, confessione.
Inciso originariamente nel 2025, nel pieno di quella che ora chiamiamo la “fase elegiaca” della band, Phantom Island fu il ventisettesimo album del collettivo australiano. A quell’altezza temporale, i Gizzard avevano già esplorato un’infinità di territori sonori – metallo, jam funk, elettricità, mitologie terrestri e cosmiche – ma è proprio in questo disco, nato da scarti di un progetto precedente (Flight b741), che la loro opera sembra voltarsi indietro e riflettere su ciò che ancora mancava.
La risposta ai loro quesiti è stata, come spesso avviene, musicale. Phantom Island è un racconto per suoni stratificati, fratturato tra il desiderio di fuggire e il bisogno di tornare. Il disco, in origine, non prevedeva orchestrazioni; furono aggiunte in un secondo momento, dopo l’incontro casuale con la Los Angeles Philharmonic. Il compositore e direttore d’orchestra inglese Chad Kelly costruì allora una sovrastruttura sinfonica intorno ai brani originali, non per addomesticarli, ma per farli vibrare, a tratti, come apparizioni di un sogno interrotto.
Il risultato, come da tradizione della band, è affascinante perché instabile e sbilenco. Ma, dietro l’esperimento sonoro, si avverte una verità che ancora oggi possiamo percepire con chiarezza: Phantom Island fu registrato in un momento liminare delle vite dei membri del gruppo. Diventare padre, sposarsi, uno di loro – Lucas Skinner – aveva da poco perso la madre mentre la band era in tour. È alla luce di ciò che l’isola evocata nel titolo assume il suo significato più toccante: non luogo immaginario, ma emblema della distanza incolmabile tra i legami profondi e il tempo divoratore della vocazione artistica.
Quell’isola è la famiglia, sono le persone amate, che si allontanano mentre l’orchestra sale i gradini della ribalta al suono della fanfara. È l’idea di casa come rifugio quasi oramai inaccessibile.
E così Phantom Island vibra di una malinconia nuova per il canone gizzardiano, che pure nei dischi precedenti non aveva indugiato ad esplorare territori decisamente oscuri: una musica nuova che, pur mantenendo le sue usuali trasformazioni stilistiche, si fa più introspettiva, più fragile, più umana. Il desiderio di “volare via”, che ossessiona i testi di Spacesick o Eternal Return, non è più frutto di uno slancio visionario, ma la meditazione di una lontananza che ferisce, che costa.
Musicalmente, ogni brano riflette questa dialettica. Ma è Spacesick forse il momento più alto del disco: una mini-suite in cinque minuti, che alterna sezioni cantate e esplosioni orchestrali in, con reminiscenze bowiane (il Bowie di Low, ma anche l’eleganza aliena di Space Oddity). Il testo, che racconta di un astronauta perduto nello spazio, diventa una parabola sull’assenza, sulla nostalgia, sull’amore impossibile da comunicare. Il brano è suddiviso in sei sezioni principali, ciascuna attribuita a una diversa voce del gruppo. Questo coro di voci, pur mantenendo un tono uniforme di malinconia e riflessione, moltiplica le prospettive sull’esperienza della solitudine.
L’intero brano è pervaso da una topografia del desiderio: ogni dettaglio terrestre evocato (l’erba, la cena, lo zoo, i bambini) rappresenta un luogo mancante nel presente dell’io lirico. L’assenza è amplificata dall’ambiente siderale, che azzera i riferimenti sensoriali. Le parole si fanno veicolo della distanza. Ogni tentativo di dire “ti amo”, “mi manchi”, “vorrei tornare” risulta insufficiente. Lo spazio cosmico non è solo fisico, ma linguistico. Nonostante la briosità della musica, nel testo il malessere fisico, legato all’assenza di gravità (space sickness), progressivamente si trasfigura in una condizione esistenziale: il mal d’essere di chi ha perso il contatto con ciò che lo rendeva umano – la terra, la famiglia, la memoria, il corpo. L’intero testo è pervaso da una tensione fra assenza e desiderio di presenza, fra il sogno infantile dell’esplorazione spaziale e la concretezza terrena delle relazioni interrotte. Proprio su questo punto insiste il climax finale, costruito su un pedale di archi e un assolo di clarinetto, culmina nel verso di commiato:
“To sit on chairs that touch the floor – for that, I’d give it all,
‘til then, dream is all I can do.
I love you.
Over.
Stu.”
Ascoltato oggi, in un’epoca in cui la musica ha perso il corpo e si è fusa con gli algoritmi, Phantom Island colpisce per la sua fisionomia umana. Non tutto è perfetto, ma tutto è vissuto. È un disco che tenta – con sincerità e intelligenza – di tenere insieme la vastità del cielo e il peso delle radici. Di dire: “sto volando, ma sento la mancanza del suolo”.
Questo, forse, è il più grande lascito di Phantom Island: la consapevolezza che certa musica, per essere vera, dovrebbe nascere da un conflitto tra ciò che si è e ciò che si sogna di diventare. (Bartolo da Sassoferrato)
A.R.I.A. (Analisi, Recensioni, Interpretazioni Artistiche), Revisore #2786, 12 aprile 2197




che bella recensione. Grazie di esistere
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Grazie a te, contento ti sia piaciuta
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Forte chat gpt a scrivere eh?
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Da di sicuro buone idee su cui lavorare. Per scrivere è meglio SudoWRITE
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Condivido i complimenti per la recensione, non potevi descrivere meglio il mood del disco!! La penso allo stesso modo: soprattutto nella seconda parte si toccano vette emotive altissime, forse come mai erano riusciti a fare. Il duo Spacesick/Aerodynamic ogni volta rischia di farmi scendere la lacrimuccia.
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Grazie. Al di là di descrivere lo stile della musica, la qualità dei suoni e del songwriting, provo sempre a trasmettere le sensazioni che mi trasmette un disco, quindi mi fa piacere che qualcuno possa usufruire di questi pensieri, al di là se condivide o no quello che scrivo.
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