Dopo la tempesta: ARCADE FIRE – Pink Elephant

Ci sono tante circostanze esterne che possono modificare, all’improvviso, progetti, intenzioni e, molto semplicemente, la vita di una persona e di quelle a questa vicine. Ed è esattamente quello che è avvenuto a Win Butler e agli Arcade Fire, immediatamente dopo la pubblicazione del precedente, ottimo, WE. Butler, infatti, è stato accusato di aver posto in essere condotte sessuali inappropriate con cinque ragazze di età compresa tra i 18 e i 23 anni, sollecitando atti sessuali e l’invio di materiale sessualmente esplicito, abusando della sua notorietà. Pur avendo Butler ammesso di aver avuto tali rapporti, specificando che gli stessi fossero consensuali – e del resto non sono stati aperte indagini a suo carico – la propalazione di tali notizie ha impattato sull’attività della band, con la cancellazione di alcuni concerti, una “riflessione” generale e ovvie ripercussioni personali, essendo Butler sposato con la cofondatrice del gruppo Régine Chassagne.

Questa premessa non è frutto della volontà di fare “gossip” su questioni che, ad oggi, non hanno trovato sbocco in una sede processuale – l’unica in cui si possono accertare accuse di un certo peso – ma perché questi fatti hanno inciso in modo preponderante sul nuovo parto degli Arcade Fire, tanto a livello musicale che lirico. Se in occasione dell’uscita di WE avevo evidenziato come tutto il disco, bipartito, portasse un messaggio di speranza per il futuro (Lookout Kid) fondato sul concetto di “restare vicini”, questo percorso è stato bruscamente interrotto da quanto finora rappresentato portando ad un cambio di rotta rispetto a quanto si aveva in mente di fare.

Il risultato è il più classico dei dischi di transizione, concetto che viene esplicitato sin dal primo estratto dell’album, l’ottima Year of the Snake e il suo ritornello “It’s the season of change / And if you you feel strange / It’s probably good/ It’s the year of the snake / So let your heart break”. Pink Elephant, infatti, non è un nuovo inizio sul crinale della speranza illuminato dall’ultimo album, ma una ricerca di una necessaria transizione, un vitale cambiamento per lasciarsi alle spalle quel Pink Elephant dello splendido brano omonimo, che è il simbolo della depressione in cui è caduto Butler (Don’t think about Pink Elephant, no /Take your mind off me, yeah /The way it all changed makes me wanna cry, but /Take your mind off me, yeah).

Musicalmente tutto questo si traduce in un disco in chiave minore, in cui manca quasi del tutto una certa epica che, in proporzioni variabili, è sempre stata presente nei dischi dei canadesi, come si intuisce dai primi due brani (escludendo l’intro Open Your Heart or Die Trying) e che si ripercuote anche nelle canzoni più dance, vicini ai lavori “di mezzo” del gruppo, esaltati, soprattutto nei synth, dall’ottima produzione di Daniel Lanois, uno di quelli che non ha bisogno di presentazioni.  Personalmente ho sempre trovato interessanti gli album di transizione, anche quando, come nel caso di specie, non sono affatto perfetti e vanno a posizionarsi in quella categoria quasi filosofica del 7.1. Perché sono dei lavori che sono quasi come un cantiere a cielo aperto in cui se, da un lato, c’è una certa confusione a livello “progettuale”, dall’altro si nota la volontà di un naturale cambiamento, anche se dettato da circostanze non positive.

E questa confusione si nota, soprattutto nei brani più ritmati che, a dispetto del loro tenore musicale, si ricollegano comunque al leitmotif dell’album: Circle of Trust e Alien Nation, in questo senso, scivolano via senza lasciare il segnp, aggiornando il tiro di Everything Now – di gran lunga il disco meno riuscito dei Nostri- a suoni più attuali. Parzialmente diverso il discorso per I Love Her Shadow, sorretta da synth molto presenti, che, richiamando espressamente certi U2 dei primi ’90, anche per la produzione di Lanois e l’impostazione vocale di Butler, diverte e convince senz’altro di più; anche se il cuore pulsante di quest’album è senz’altro da rinvenirsi in altri brani, quelli più dimessi ed essenziali, come la già citata doppietta iniziale, o la toccante Ride or Die, o, ancor di più, la conclusiva Stuck in My Head, senza dubbio miglior composizione dell’album insieme al brano omonimo.

Una canzone che si ricollega ai primi due lavori della band, ma che, anche nel momento di maggiore enfasi emotiva, in un crescendo strumentale quasi post-rock, finisce – volutamente- per non esplodere mai. Canzone che inquadra perfettamente il qui ed ora degli Arcade Fire e di Win Butler (It’s a mess in my bedroom, mess in my car Mess in my head, mess in my heart […]I’ll clean up this bedroom, clean up this head Clean up this car, clean up this heart) e rappresenta quasi il manifesto tematico di Pink Elephant. Un album imperfetto, sghembo, ma affascinante e soprattutto di un’onestà disarmante, di quella che, in alcuni momenti, quasi imbarazza, come se si stesse ascoltando una seduta di psicoterapia. Ed è una qualità che difficilmente si trova in album di band di questo livello e che, personalmente, trovo forse ancor più interessante di quelle presenti in lavori obiettivamente più riusciti, ma meno autentici. E in fondo a tutto quel casino e alle macerie descritte nel finale, si intravede una nuova via per la band, in quella volontà di alzarsi da quel cazzo di letto, e in quel richiamo quasi springsteeniano: You’re missing the best part! (L’Azzeccagarbugli)

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