Sull’asse Bergamo-Mosca: VOLAND – The Grieving Fields

I Voland sono un duo bergamasco in attività dal 2007, formato da Halwas (tutti gli strumenti) e Rimmon (tutte le voci), soggetti che più probabilmente conoscerete per la loro contemporanea militanza nei Veratrum, e vengono descritti come symphonic/epic black metal. Tuttavia, onde evitare fraintendimenti, va fatta la premessa che nella loro musica di black metal ce n’è sempre stato pochissimo, giusto qualche accenno in tutto quanto da loro pubblicato.

Un primo EP omonimo uscì nel 2008, dopodiché dovettero passare 9 anni per l’uscita di Voland 2, anch’esso un EP. Inizialmente realizzati in solo formato digitale e autoprodotti, i due dischi furono ristampati dapprima in edizione fisica dalla Masked Dead Records nel curioso e ultra-desueto formato CD 3 pollici in appena 50 copie; successivamente vennero riuniti in un unico disco, con l’aggiunta di un brano inedito, sempre da Masked Dead e con il titolo Bоланд (Voland scritto in cirillico). Un terzo EP Voland III: Царепоклонство – Il culto degli Zar è uscito nel 2021 per la IronD Records russa: quest’ultimo contiene 4 inediti e, con l’ausilio di alcune bonus, arriva ad una lunghezza di 45 minuti; altre due versioni sono poi state patrocinate dall’ormai defunta (con mio sommo rammarico) abruzzese Xenoglossy productions.

The Grieving Fields, l’episodio qui in esame, è dunque il loro debutto sulla lunga distanza – anche se dura poco più di mezz’ora – e ne fa le veci la Dusktone. Loro sono italiani e sono sempre stati appoggiati da etichette italiane, ma, a quanto m’è parso di intuire cercando un po’ di informazioni in rete, sono più conosciuti all’estero che nel nostro Paese. Personalmente li seguo dai tempi delle ristampe Masked Dead, anche se mi manca il primo disco, esaurito in breve tempo.

Già, ma vi starete chiedendo: perché hai anticipato che nei Voland c’è pochissimo black metal, anzi tendente al “quasi niente”? Perché la loro musica, fin dai primi passi estremamente melodica e trascinante, non contiene – se non in quantità irrisorie – quei connotati tipici del black tipo l’alta velocità, la tensione, l’oscurità, la cattiveria o più semplicemente la voce in screaming. Il che è un bene, perché tutto il concept alla base dell’esistenza dei Voland è la storia russa e il suo folklore, sicché tutte le loro composizioni sono epiche, molto (ma molto) melodiche e traggono ispirazione anche dalla musica tradizionale di quelle terre (addirittura parte dei testi dei dischi vecchi sono cantati in russo, sebbene la lingua preferita sia l’italiano; di quelli del nuovo ancora non so nulla). Infilarci dentro a forza del black metal non so a che servirebbe, perché secondo me il pubblico al quale si rivolgono è differente.

Oltre a queste influenze da oltrecortina, molto del loro stile sembra derivare dalla musica classica, periodo romantico-barocco, e, grazie alla diversificazione dei suoni delle tastiere, strumento col quale la maggior parte della musica viene ideata e realizzata, il risultato finale assume inaspettati connotati operistici di ragguardevole livello. A tratti sembra di stare ascoltando un musical ambientato nella Russia di inizio Novecento, al punto che capita di immaginare di trovarsi sul palco insieme agli attori; questo anche grazie all’utilizzo estremamente versatile delle voci, come se ogni sfumatura facesse capo ad un personaggio diverso, che svariano dal growl all’epico, dal corale fino all’operistico. Solo nell’inizio del quarto pezzo Rodina sfiorano lo screaming su un riff che sembra uscito da King of the Distant Forest dei Mithotyn, potente e veloce oltre che uno dei pochi in cui è la chitarra, più che la tastiera, a fare la parte del leone.

Registrato e prodotto in modo eccellente, è indubbio come questo primo loro full sia un album veramente azzeccato, che piacerà a tutti coloro che apprezzano musica epic/folk melodica senza essere mielosa, stile che rende alla perfezione l’atmosfera che i testi vogliono significare (occhio perché non è così scontato o frequente) evitando prolissità o eccessiva ridondanza. Poi i sei brani sono snelli, mai troppo lunghi o slavati, e ci si diletta con piacere con una mezz’oretta di musica molto ben fatta. Niente male, direi. (Griffar)

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