R.I.P. Gene Hackman [1930-2025]

In una sequenza di giorni già di per sé decisamente nefasta in cui si sono spenti Roberto Orci (sceneggiatore di Star Trek e di Transformes ), la giovane Michelle Trachtenberg (la Dawn di Buffy, ma che per me e Barg resterà sempre la Jenny dell’imperdibile cult Eurotrip), è arrivata la notizia della scomparsa di Gene Hackman che, senza timore di smentita, è stato uno dei più grandi attori della storia del cinema. Notizia, tra l’altro, accompagnata da un eco particolarmente sinistro, in quanto l’attore americano è stato trovato senza vita nella sua casa del New Mexico, insieme alla moglie, la pianista Betsy Arakawa, e al loro cane, in circostanze tutt’ora da accertare e sulle quali non daremo adito ad alcuna speculazione.

È sempre difficile parlare della scomparsa di un personaggio così rilevante che se ne va ad una così veneranda età (95 anni), senza cadere nella retorica. Il fatto è che la presenza di Hackman nella storia del cinema e l’impatto che ha avuto su chi scrive, è stata talmente rilevante che è difficile restare impassibili. Ho conosciuto Gene Hackman da bambino, a sei/sette anni, nella sua interpretazione di Lex Luthor in Superman di Richard Donner, che subito dopo mi ha portato a voler vedere i successivi seguiti, secondo me estremamente esemplificativi di una delle caratteristiche che più riconduco ad Hackman. Se il primo film di Donner è un’opera iconica che, nonostante alcune ingenuità, ha resistito alla prova del tempo ed è entrato nell’immaginario collettivo, i successivi film non sono assolutamente – neanche lontanamente – al livello di quel film. Eppure me ne ricordo, con affetto, tantissimi passaggi e mi rendo conto che il merito è tutto suo, di Gene Hackman, un attore capace di catalizzare tutta l’attenzione dello spettatore e di salvare anche l’insalvabile, per un semplice fatto: indipendentemente dal ruolo, sapeva interpretare qualsiasi parte al meglio, surclassando chiunque fosse al suo fianco e catturandoti con un’aura a dir poco magnetica.

Solitamente, come tutti credo, tendo a rimuovere visioni particolarmente scialbe e poco incisive, ma quando c’è Gene Hackman, continuo a ricordare anche sequenze e personaggi di film oggettivamente brutti, o poco riusciti: come l’interrogatorio nel noiosissimo Under Suspicion di Stephen Hopkins del 2000, oppure il boss dello strampalato The Mexican di Gore Verbinski, o l’aura che emanava insieme a Kevin Costner in Wyatt Earp.

Se questo accadeva in film “dimenticabili”, figuriamoci in quelli che trovano un giusto posto di rilievo nella storia del cinema e nella cultura popolare, le cui immagini stanno giustamente occupando bacheche e feed di tutto il mondo, dalla maniacale paranoia di Henry Caul del capolavoro La Conversazione di Francis Ford Coppola, passando ad Harry Moseby dello splendido Night Moves (Bersaglio di Notte) di Arthur Penn, regista con il quale aveva avuto uno dei primi ruoli davvero importanti nel meraviglioso Bonnie and Clyde (Gangster Story), che gli valse la sua prima nomination agli oscar nel 1967, arrivando al sadico Little Bill Daggett di The Unforgiven (Gli Spietati) di Clint Eastwood, per non parlare del monumentale Jimmy “Popeye” Doyle in French Connection (Il Braccio Violento della Legge) del compianto William Friedkin.

Ma si potrebbe parlare per ore delle interpretazioni di Hackman che, come evidenziato poc’anzi, risultava eccellere in qualunque ruolo e con qualunque registro attoriale, basti pensare al suo cameo in Frankenstein Jr. di Mel Brooks, Harry Zimm di Get Shorty, il Kevin Keeley di The Birdcage (Piume di Struzzo) di Mike Nichols, con cui ebbe una proficua collaborazione. C’è poco da fare: con quella faccia, quel timbro e quella fisicità poteva fare tutto e, soprattutto, poteva farlo meglio degli altri.

Mi rendo conto di non aver scritto praticamente nulla della sua vita, della sua formazione, del suo passato da marine, delle sue collaborazioni durature con alcuni autori, ma nella mia mente, in questo momento, contano solo le immagini che hanno accompagnato la mia vita di spettatore e per concludere questa carrellata in memoria di un gigante, non posso che menzionare la conclusione di uno dei suoi ultimi film (essendosi ritirato dalle scene da più di vent’anni, anche per ragioni di salute), che è anche uno dei miei film della vita, ossia The Royal Tenenbaums (I Tenenbaum) di Wes Anderson.

In questo capolavoro, dolceamaro canone della cinematografia del nuovo millennio, Hackman interpreta un capofamiglia caduto in disgrazia che cerca di riavvicinarsi, dopo anni, ai suoi familiari fingendosi malato. Senza rievocare le vicissitudini che si susseguono nel noto film di Anderson, Hackman interpreta con una verve incredibile il personaggio di Royal Tenenbaum, regalando una prova davvero indimenticabile e sul finale Royal finisce davvero per lasciarci le penne. E in quel momento Royal il millantatore decide di lasciare il mondo con un colpo di genio, scegliendo il proprio epitaffio da incidere sulla tomba di famiglia, che è sempre stato uno dei miei momenti preferiti di tutto il cinema e che vedete ritratto qui sotto.

Subito dopo, si chiude il cancello del cimitero sulle note di Everyone di Van Morrison e, in questo momento, non trovo un modo migliore per rendere omaggio ad un gigante come Gene Hackman. (L’Azzeccagarbugli)

3 commenti

  • Avatar di weareblind

    Ben scritto, grazie.

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  • Avatar di Simone Amerio

    Sempre adorato.
    Al di là della sua bravura e versatilità, era uno di quegli attori misurato eppure rubava la scena. Guardatevi la scena mentre racconta di come andò veramente il duello di Bill l’Inglese ne Gli Spietati, o il vecchio riccone in un filmettino come Vizio di famiglia. Da solo ti salvava mezzo film anche se la sceneggiatura faceva acqua da tutte le parti.
    Le circostanze della sua morte sono a dir poco inquietanti, va detto, ma a parte questo se ne va uno degli ultimi giganti della Hollywood quando questa era Hollywood.

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