Come Maccio Capatonda ma depresso: Dostoevskij (la serie)

Se anche voi vi siete approcciati alla serie Dostoevskij perchè attratti dal titolo, e pensavate di trovare dentro qualcosa che c’entrasse con lo scrittore russo, ma avete capito fin da subito che vi stavate sbagliando, e non solo, ma avete capito che la miniserie sarebbe stata di una noia mortale, avete tutta la mia comprensione se vorrete abbandonare questo articolo, come avete già forse fatto in precedenza quando avete lanciato il telecomando contro il televisore al secondo episodio, o anche prima. Mia moglie, che fa parte di quella squadra di lanciatori di telecomando, quando le ho raccontato gli sviluppi e il finale l’ha definita “un compendio di tutti i disagi dell’umanità”. Non siamo quasi mai d’accordo sulle serie o i film, ma questa volta temo abbia pienamente ragione.

La miniserie è stata scritta e diretta dai fratelli D’Innocenzo e il protagonista è Enzo Vitello, un poliziotto con una vita miserabile, ai margini della società (per scelta propria), e con un rapporto complicato con la figlia tossicodipendente Ambra. In tutto questo Enzo deve andare appresso a un omicida che sul luogo del delitto lascia lettere contenenti riflessioni sulla vita e la morte. Avete capito quindi perché si chiama, appunto, Dostoevskij. La storia può essere divisa in due parti: la prima, che va dal primo fino al terzo episodio, dove il racconto indugia molto sulla vita del protagonista, e la seconda, in cui invece ci si concentra sulle indagini che cominciano a svoltare e ci si avvicina alla verità. Le prime tre ore circa dovete quindi aver pazienza. I ritmi sono molto lenti, ma è necessario autoinfliggersi questa tortura per arrivare a capire il finale. Specifico: non che i ritmi lenti di per sé siano un problema. I problemi che rendono la prima metà, e in parte anche la seconda, una tortura sono altri.

Partiamo dalla stazione di polizia. È stranamente collocata nel nulla, quando di solito questi edifici sono piuttosto in mezzo al paese o ai quartieri della città, e ci lavorano una decina di agenti che sembrano tutti essere coinvolti nelle indagini del caso “Dostoevskij”. Vorrei conoscere il comune perché, se l’unico problema che c’è in zona è l’omicida, quasi quasi mi ci trasferisco. Sembra essere una provincia del Centro Italia, ma non lo si capisce veramente, il luogo, perché, in una nazione dove i dialetti e le inflessioni sono tantissime, qui tutti parlano come se avessero fatto un corso di dizione. Cosa che può andar bene in alcuni sceneggiati, ma se i tuoi personaggi sono quanto di più provinciale possibile, forse un mezzo accento locale era da mettere.

Visto che siamo sul verbale spostiamoci ai dialoghi. Almeno la metà degli stessi sono ridicoli, ma proprio fuori dal mondo. Gli attori spesso recitano usando pause lunghissime tra una frase e l’altra, e alcune frasi suonano come se fossero state doppiate dall’inglese (ma ovviamente non lo sono, perché è una produzione italiana). Se c’è qualcuno che abita o ha abitato in centro Italia, mi fa sapere quante volte gli capita di usare, o sentire da altre persone, la parola “fottuto”, ad esempio?

Il capo della polizia è uno dei personaggi peggiori della serie. Più dell’ultimo poliziotto arrivato, il fenomeno palestrato. Il picco dell’assurdità si raggiunge quando i due fanno colazione assieme. Altra scena totalmente incomprensibile è quando, il medesimo capo si ferma in un bar e dentro c’è solo un cameriere, un ragazzo poco più che adolescente, con cui inizia a parlare. Non vi racconto oltre di questo momento, ma spero riusciate ad arrivare fin lì per capire finalmente il significato della parola, ormai largamente usata anche nel parlato italiano, “cringe”. Tutti i personaggi principali e tutte le comparse interagiscono con dialoghi che sono talmente grotteschi che fan quasi pensare di stare guardando una parodia di Maccio Capatonda. La più convincente risulta essere la figlia tossicodipendente che, forse proprio perché tale, non è così fuori dal mondo come gli altri. La cosa più assurda è che non c’è un minimo spiraglio di felicità. Ogni interazione è votata sempre a essere la più depressa possibile, fino al culmine massimo quando Enzo spiega alla figlia perché la abbandonò molti anni prima, e si capisce perché ha deciso di vivere ai margini, come detto all’inizio.

Opere con un carattere così cupo non le scriveva nemmeno l’originale Dostoevskij. L’intera serie è un unico, enorme blocco nero di tristezza abissale. E purtroppo questo suo essere perennemente così la appesantisce più di tutto quanto appena scritto sopra. Se proprio volete un motivo per vederla, quella è la puntata finale. Gli amanti del brutal death metal, del gore e simili ne apprezzeranno le scene, vista l’attinenza ai generi musicali. Truculenza a parte, la fine ripaga l’attesa. Per cui, sì, ne vale la pena stare a guardarla, in fondo in fondo.

P.S. Peccato che poi ci sia quella scena in chiusura col capo della polizia che dialoga con la figlia di Enzo passeggiando lungo la riva di un torrente durante una giornata soleggiata. E via, altro momento che si aggiunge al “compendio di tutti i disagi dell’umanità”. (Luca Venturini)

3 commenti

  • Avatar di ignis

    Secondo me, chi ama il cinema di genere potrebbe trovare interessante questa serie: hanno voluto calare lo spettatore in un enorme buco nero, nell’abisso terminale dell’esistenza (salvo l’inutile scena finale).

    Tuttavia, la recitazione e i dialoghi sono davvero imbarazzanti…

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  • Avatar di Supermariolino

    Mi sono arreso alla terza puntata…

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  • Avatar di VIDLON

    Giustissimo mazziare il cinema e le serie nazionali (anche internazionali) odierne. Soprattutto perché “di genere”. Si è voluto (super produzioni, controllo delle sceneggiature, attori tutti uguali, omologazione e normalizzazione dei concetti di “distopia” e “buco nero esistenziale”) dare in pasto agli spettatori uno show iper controllato di narrazione degenere usando le citazioni di genere. Uno schifo.

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