Recuperone death metal 2024 – seconda parte
Gli SPECTRAL VOICE altri non sono che tre quarti di Blood Incantation con un altro batterista che funge anche da cantante. Il loro secondo album, dal titolo Sparagmos, è un death doom veramente bello, pesante e oscuro, ha molte buone idee arrangiate come si deve e supera nettamente il precedente. La band non ha ancora una scrittura fatta e finita ma sicuramente ha trovato una propria strada e una propria personalità. Se oggi il filone death doom va discretamente forte è anche grazie a loro. Recensire questo disco adesso (in ordine di tempo è uscito mesi prima di Absolute Elsewhere) mi crea però dei dubbi: non è che Riedl e soci siano effettivamente in grado di creare qualcosa di valido solo se liberati dal songwriting, a tratti contorto e a tratti da Manuale delle Giovani Marmotte, di Isaac Faulk, batterista nei Blood Incantation? Purtroppo questi ultimi si prendono quasi tutto il loro tempo, ed è una fortuna che Sparagmos sia uscito dopo “solo” sette anni dal primo disco. Facciano quello che vogliono, per carità, devono campare anche loro. Speriamo portino avanti anche questa band che, personalmente, apprezzo molto.
Ci sono un italiano, due libici e un olandese. Ma non c’è niente da ridere nonostante l’incipit perché questo terzo disco dei DEFACEMENT è un cazzo di lavoro coi controcoglioni. Si chiama Duality e, come ormai avrete letto in giro, è composto da tracce di death avanguardistico intervallate da pezzi strumentali elettronici. Ecco, pare che l’opinione di molti sia che questi intervalli rovinino un po’ il fluire del disco. Io la penso diversamente: secondo me lo migliorano. Le tracce elettro-strumentali creano un senso di alienazione che permette di metabolizzare la sberla ricevuta dalla canzone appena finita e ti preparano a essere colpito nuovamente da quella che viene dopo. I pezzi hanno, inoltre, un proprio cuore melodico fatto di tremoli black metal che durano giusto il tempo di raggiungere un picco emozionale per poi far ricadere l’ascoltatore nel marasma infernale e putrido tipicamente death. Bello, veramente bello e originale.
Passiamo dall’Europa agli Stati Uniti con i JOB FOR A COWBOY. Non so che opinione abbiate voi della band dell’Arizona, visti anche i trascorsi deathcore, o giù di là, non sempre esaltanti, ma sant’Iddio che roba questo disco dal titolo Moon Healer! Death metal con melodie accattivanti e qualche vezzo progressive, con un bel basso in evidenza, prodotto divinamente ma non plasticoso, e quasi senza più alcun sentore deathcore. Dura quaranta minuti e, nonostante sia intenso e pieno di particolari come da tradizione prog, scorre via che è un piacere.
Se dopo aver finito di ascoltare i Job for a Cowboy avete bisogno di un po’ più di grezzume e di roba selvaggia mettete su questo album omonimo dei CONCRETE WINDS. Il disco è quanto di più violento il 2024 possa offrire. In poco meno di trenta minuti non verrete risparmiati per nemmeno un secondo dalla furia del duo finlandese che suona un death al limite con il grindcore. Non cercate melodia qui dentro: c’è solo violenza, violenza e ancora violenza. Niente intro, niente orpelli, canzoni da massimo tre minuti che vanno dritte al punto. Ottimo disco, non c’è che dire.
Concludiamo (quasi) con i MASSACRE, gruppo storico del death metal con una storia che tra scioglimenti, reunion e azioni legali potrebbe dare molti spunti agli autori di Beautiful. Anche su questo disco dal titolo Necrolution la stesura dei pezzi è affidata allo svedese Jonny Pettersson e tra i musicisti in studio c’è anche Rogga Johansson a dare una mano. Vi dirò, il disco è stato accolto abbastanza male quasi ovunque, ma sinceramente a me non dispiace. Le canzoni sono tutte abbastanza semplici e non sconvolgeranno il death degli anni a venire, però sapete che c’è: ‘sti cazzi. Magari un quarto d’ora in meno non avrebbe fatto male e quegli intermezzi strumentali sono proprio inutili, ma per il resto va bene così. Questo, come il nuovo Konkhra, personalmente li apprezzo per quello che sono: dischi di onesto death metal suonato da vecchi bacucchi. Tra un mese non lo ascolterò più, forse, ma intanto Shriek of the Castle mi fa proprio godere.
Visto che abbiamo tirato in ballo Jonny Pettersson è d’obbligo citare anche il nuovo disco dei suoi ROTPIT di cui era già stata fatta menzione all’uscita del primo disco. Anche su questo secondo non c’è niente di effettivamente memorabile, non c’è una canzone che brilli più di un’altra. Però è un disco che per la sua atmosfera putrida vale qualche ascolto almeno da chi apprezza i tempi doom intervallati da brevi tirate blast beat, in stile Autopsy. Il titolo Long Live the Rot è già molto esplicativo di per sé. E poi l’estetica fumettistica a me non stufa mai. (Luca Venturini)

Certo che di death ne esce di materiale…
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Direi che si può considerare il sotto-genere più in forma nel metal, forse perché più aperto a contaminazioni e quindi in grado di rigenerarsi.
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