La pentola d’oro alla fine dell’arcobaleno #1: OLIM
Mi ripropongo di parlare in modo più dettagliato su queste pagine di gruppi underground che a mio parere meriterebbero molta più considerazione più o meno dal giorno prima che io entrassi quasi (quasi? Direi del tutto) casualmente nella squadra di Metal Skunk. Dei gruppi storici preferisco siano altri a parlare, se ne hanno il piacere; io preferisco dedicarmi ad altro, perché è la realtà sconosciuta, il disco difficile da trovare del quale si fatica pure ad apprenderne l’esistenza il vero pane per i miei denti, quello che mastico da sempre e che mi ha sempre gratificato degli sfottò dei miei amici, i quali partivano in perculaggi di ogni sorta e causticità all’ennesimo nome stravagante da me citato e portato comunque con fierezza dall’ennesima band minuscola uscita da chissà dove benché – sempre a mio personale gusto, chiaramente – in grado di competere con i nomi più blasonati.
L’onore, ma più che l’onore il merito, di inaugurare la rubrica spetta alla one-man band canadese Olim, facente capo al polistrumentista Joe Caswell, attivo anche in altri progetti e non distante dagli -anta, sebbene non frequenti attivamente la scena metal da chissà quanto tempo; ci deve aver pensato su parecchio prima di passare dalla fase passiva (uno che la musica la ascolta e basta) a quella attiva (uno che la musica la crea e si augura che alla gente piaccia). Buon per noi che l’abbia fatto, perché i suoi Olim sono proprio una gran bella realtà, in grado di contare già tre full e uno split a 4 del quale appena accennai in un recuperone di qualche tempo fa.
Cosa suonano gli Olim? Black metal atmosferico, bucolico, boreale. Schizofrenico. Questo in estrema sintesi, ma è doveroso approfondire. L’utilizzo costante di tastiere che ovattano il suono rendendolo più “cosmico” o “siderale” avvicinano la sua musica anche al black sinfonico, dissento invece da coloro che superficialmente li descrivono come post-black punto e basta, definizione che mal gli si addice e che denota scarsa attenzione nell’ascolto dei loro dischi. Intendo dire che la musica degli Olim con gli Alcest, giusto per fare un nome noto ai più, c’incastra una sega, proprio.
Tornando ai loro lavori, il più recente di essi è uscito sul finire di maggio di quest’anno, s’intitola Because ed è frenetico come suo solito: i cinque brani (più un sesto in chiusura, breve strumentale elettronico in stile J.M. Jarre anni ‘70) hanno un tiro pazzesco e tutto disdegnano tranne che lanciarsi a velocità furibonde. Tutti di lunghezza vicina o di poco oltre i 7 minuti, aggrediscono l’ascoltatore fin dai primi secondi, creando quel tipico effetto-tempesta che fu trademark della scena norvegese, eppure nel tempo assorbito e rielaborato anche in zone del mondo dove non sono ignoti il freddo vero, il ghiaccio e le bufere di vento artico che tutto annichiliscono. Inizia The Question Is Why e si comincia a godere forte, tra riff di chitarra semplici ma efficaci che ricordano per impostazione gli Obtained Enslavement, tremolo-picking arpeggiato che acuisce l’impressione di alta velocità e tastieroni ad accordo fisso e prolungato che donano al tutto un sentore spiccato di modernità; non sono affatto inferiori i capitoli successivi, tutti impostati su un’aggressione sonora che solo a tratti diventa più meditata, di solito in modo temporaneo, perché a Joe piace scrivere musica potente e veloce, arrangiarla in modo che sembri ancora più potente e veloce di quanto effettivamente sia e usufruire di registrazioni e mixaggi assolutamente fragorosi. Alone e The Answer is Because in chiusura sono altri due brani di assoluto livello, ma il lavoro è molto equilibrato e cali di tensione o momenti meno significativi non ce ne sono.
Il nostro percorso a ritroso nel tempo ci porta al secondo album Ursine, di nuovo 5 brani di lunghezza non impossibile: il solo Light Crept in Where Once Was None eccede i 9 minuti, è posto in apertura ed è nuovamente una mazzata senza alcuna limitazione di violenza. Benché l’impostazione dell’album, delle composizioni e delle sonorità siano molto simili a quelle del disco più recente sopra descritto, la sensazione di impeto incontrollato è più accentuata e spesso ci si spinge ai confini dell’universo raw black metal sinfonico; Ursid Magnus è parossistica, un turbinìo che non prevede momenti di stanca e quasi finisce per stordire l’ascoltatore impreparato a simili livelli di cattiveria musicata con abbondanti additivi di odio, animosità e accanimento. Sembra meno demolitrice Bonds Entwined as Roots Below, tanto per citare una delle poche pause di riflessione, ma è illusorio perché su basi Satyricon (era The Shadowthrone) si divaga nella devastazione più totale. Nel disco le tastiere, sebbene comunque fondamentali, sono un gradino sotto nella scala dell’ evidenza rispetto a Because, ma sono dettagli perché, se vi piacciono le tastiere sinfoniche di derivazione Emperor, qui ne troverete da togliervene la voglia. Lo screaming estremo e la furia sono costanti in tutte le sue creazioni, senza cedimenti o variazioni d’impostazione, tuttavia si percepisce un sensibile miglioramento rispetto all’album d’esordio.
Detto che il loro brano più lungo della carriera è incluso nel summenzionato split a 4 del 2022 (An Autumnal Passage, 12 minuti e rotti, un pezzo bellissimo e suadente pur fedele al suo stile nevrotico), il disco che – quantomeno in edizione fisica – è più arduo da trovare è il debutto del 2021 A Mighty Disposition, uscito per la label di nicchia totale Onism productions (mi sono scordato di precisare che tutti gli altri loro CD fisici escono per l’italianissima Flowing Downwards, meglio tardi che mai… cosa volete, è l’Alzheimer) in 100 copie appena in CD di colore blu. Una novità, penso sia l’unico che possiedo, mai visti altri di questo colore – e no, non è un Cd-r. In questo caso i brani effettivi sono 4, più la consueta strumentale in chiusura che in questo caso è più lunga dell’usuale e meno squisitamente tastieristica. Il disco è ancora più grezzo per quanto concerne il responso sonoro, ma le tastiere sono persino più “spaziali” e riempitive rispetto a quanto proposto in seguito, mentre un intreccio di chitarre zanzarose di scandinava memoria porta il tutto a livelli demolitori di prima qualità, con uno screaming in questo caso mixato in secondo piano, previlegiando partiture di raw symphonic black non vagamente riconducibili ad episodi francesi di pari genere (tipo ad esempio Eikenskaden e Mystic Forest, ma in parte accostabili anche ai Seth) oppure ucraini (Astrofaes). Questo debutto è senz’altro l’episodio più irruento, rabbioso e veemente dell’intera discografia. A tratti brutale, solo le tastiere mitigano in parte la catastrofe naturale incontrollabile delle composizioni, miscelando sapientemente collera, accanimento e melodia e rendendolo interessante sia per chi apprezza un approccio più atmosferico non disdegnando comunque il massacro dei timpani, sia per chi ne preferisce uno all-out aggressive, senza respiro, senza compromessi, senza tutto ciò che può essere senza.
Mi auguro che vi interessiate al progetto Olim, e che vi piaccia il format. Se così sarà, ci sono molte altre minuscole realtà che avrei piacere di presentarvi. Tutta la discografia la trovate comunque sul loro Bandcamp. Enjoy. (Griffar)





Bella rubrica.
Mi permetto di avanzare una richiesta: approfondimento sui Dauþuz, band della quale hai già accennato se non vado errato.
Trovo il loro nuovo album, uscito qualche tempo fa, di una bellezza abbacinante. Li conoscono quattro cazzo di gatti e lo trovo scandaloso, soprattutto per gente che si vanta di apprezzare Falkenbach o Windir.
Ripeto: Uranium, concept neo-verista sui poveracci della Germania est che crepavano come mosche estraendo uranio, è una delle migliori uscite estreme dell’anno in corso.
Pensace tu, Grif.
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Metto in lista, indubbiamente meritano. Grazie per il suggerimento!
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