SEAR BLISS – Heavenly Down
Il nuovo disco di Herr Nagy e dei suoi Sear Bliss è un disco stupendo. Non che la cosa mi sorprenda, non riesco a trovare un solo album meno che buono in tutta la loro discografia, e sì che sono dei veterani in attività da oltre trent’anni. Lo hanno dimostrato i God Dethroned quest’anno: anche gli Dei ogni tanto sbagliano qualcosa (e solo loro sanno quanto io adori i God Dethroned) e nessuno è immune dal pubblicare opere non all’altezza della propria fama, ma questa è una realtà che per i Sear Bliss è del tutto avulsa dalla possibilità di verificarsi.
Originali e personali fin dagli esordi, grazie all’utilizzo continuato di strumenti a fiato nei loro arrangiamenti e nelle loro partiture, nel tempo la loro musica è migliorata come i vini d’eccellenza, che sono squisiti fin dal principio ma che, se strappi dopo venti o trent’anni, diventano un’esperienza quasi mistica, un susseguirsi di brividi continui perché vieni portato in mondi diversi, tutto ciò che ti circonda smette di esistere, svanisce, si estingue, e per lunghi estasianti momenti ci sei solo tu e la musica (o il vino), che ti entra nel cervello come la più devastante delle droghe. Molto più piacevolmente, aggiungerei.
Arpeggi delicatissimi ed ipnotici si rinvengono nel corso del disco, oltre a tastiere maestose e a tratti molto synth-sound anni ‘80 (lo strumentale Forgotten Deities per esempio, ma anche altrove ovviamente) e agli indispensabili e caratteristici inserti di tromba e trombone, ma tutto l’album nel complesso è piuttosto aggressivo e va a giocarsela a viso aperto con Forsaken Symphonies, disco che io reputo il loro apice in carriera. Ciononostante Heavenly Down non ha assolutamente nulla da invidiargli: registrato e prodotto alla perfezione (come ci si aspetta da un’etichetta come la Hammerheart), rispetto a questo ha parecchie influenze in meno derivate dai vecchi Satyricon e ricorda subliminalmente in modo più marcato i Primordial del periodo fino a Storm Before Calm, sebbene assai di più per schemi compositivi e strutture dei brani, giacché la musica degli ungheresi poco ha a che condividere con l’epicità smaccata del gruppo del fenomenale Nemtheanga. Tra epico ed evocativo c’è una certa differenza, converrete con me.
Almeno quattro brani su otto sono meritevoli dell’immortalità: Infinite Grey, che apre il disco con il gravoso compito, assolto alla perfezione, di fare partire la navicella che ci porterà in mondi altrove, black metal atmosferico da manuale, da lacrime agli occhi; non gli sono da meno The Upper World e l’omonima, e sono brividi continui fino alla conclusiva Feathers in Ashes, ma cosa dire della lenta e più elettronica Chasm? Posta in penultima posizione della scaletta, semplicemente strabilia per la sua maestosa mesta melodia, per la quale non posso che esprimere totale ammirazione. La verità è che nessun brano è al di sotto dell’assoluta eccellenza, e questo nono album dei Sear Bliss è uno dei dischi dell’anno, in top 10 di per certo: anno che forse annovera perle rare in minore quantità rispetto al 2023, ma quelle che possono fregiarsi di tale ambita caratteristica sono di così alto livello da far impallidire persino i capolavori dei mostri sacri del passato. Quindi fatevi un favore: smettetela di sottovalutare Herr Nagy, la sua stupenda musica, la sua capacità di commuovere ogni volta che si mette un suo disco nello stereo, vendete gli ultimi CD dei Marduk (che tanto sono già mesi che non ascoltate più, la sopportazione ha un limite) a qualche neofita che deve ancora farsi le ossa e con i soldi racimolati incominciate a recuperare la discografia dei Sear Bliss, loro sì che se lo meritano. (Griffar)



È stupefacente. L’inizio di Watershed, poi, è pura poesia. Davvero un peccato che i Sear Bliss siano così sottovalutati, tra i più sottovalutati di tutti i gruppi black. E infatti qui non c’è ancora nessun commento. Vabbè, godiamoci questo disco clamoroso.
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