QUEEN OF VILLAINS, ovvero quando Giappone vuol dire violenza gratuita. Persino su Netflix

Salve, sono Leonard Nimoy. La seguente storia di incontri del terzo tipo è vera. E, nel dire vera, intendo falsa. Sono tutte bugie, ma sono bugie divertenti, e alla fin fine non è proprio questa la vera verità? La risposta è no.

Amo citare i Simpson e questa citazione qui, stavolta, calza a pennello. Poi vi sarà chiaro il perché. Non è che Netflix non ne azzecchi proprio più nessuna. L’importante, sicuro, è evitare sempre, come la peste, prodotti italiani. Tipo, di recente ho visto (lo so, sono masochista) un horror con Scamarcio, intitolato Il Legame, perché pare sia basato sulle ricerche antropologiche di Sud e Magia. Che ve lo dico a fare, tutto sussurrato, una meraviglia… Meglio fidarsi invece delle produzioni di industrie serie, tipo quelle inglesi. Visto The Gentlemen di Guy Ritchie? Ultimamente sto vedendo un pacco di roba coreana, qualche zozzata o ruffianata di troppo c’è, ma generalmente le storie più o meno le hanno e non mi sembra sussurrino. Di giapponese era da un po’ invece che non vedevo niente, ma il trailer di The Queen of Villains mi pareva degno. Perché contate che, se il mio interesse per il wrestling è recente e ancora a livello superficiale, il livello di violenza e sadismo che il cinema giapponese tira fuori, da sempre, invece mi interessa da un bel po’. Mai visto niente, ad esempio, del filone pinky violence? Non sapete cosa vi perdete… Quindi ecco che una serie che è una specie di biopic su quella ragazzina un po’ tanto sovrappeso che negli Ottanta divenne il nemico numero uno nel Sol Levante, una vera sukeban heavy metal dedita all’odio, al sadismo ed alla violenza su ring, pareva ben meritevole di visione. E a conti fatti lo è stata.

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Insomma, la trama, in soldoni, è la storia dell’ascesa della debole Kaoru Katsumoto, la ragazzina un po’ tanto sovrappeso di cui sopra, nell’ambiente competitivo delle prime federazioni di wrestling femminile in Giappone, tra fine anni ’70 e primi anni ’80. Così dal principio seguiamo lei e altre giovani adolescenti selezionate nei provini cominciare una vita di duri allenamenti, qualche forma di pesante nonnismo da parte delle wrestler più anziane e di manipolazione da parte di chi dirige la baracca. Per loro il wrestling non è uno sport, un hobby o uno spettacolo, ma una missione. Lo si capisce anche dal trasporto con cui seguono gli incontri e l’uscita di scena delle loro beniamine, tra l’altro popolarissime. In un contesto così duro non è facile per Kaoru, meno capace delle altre e dall’animo troppo gentile. Ma la rabbia accumulata per le mille umiliazioni subite, fuori e dentro al ring (in senso figurato), fanno in modo che la sua personalità più nera esploda in una maniera devastante, mettendo in crisi tutto l’ambiente. Ma, scherzi del destino, è anche la sua stessa rabbia a consentire a tutta l’azienda, con la contrapposizione tra il suo personaggio maligno e senza regole e quello delle sue colleghe dall’immagine virtuosa, di esplodere in termini di visibilità, popolarità e conseguentemente anche in termini di incassi.

Più che per la trama in sé, anche se divertente, ispirata alla storia vera della vera Kaoru e delle sue vere “colleghe”, quello che funziona su tutto è proprio quel cortocircuito verità/finzione che distingue il wrestling da altre forme di arte marziale o sport. Cortocircuito su cui la serie gioca benissimo, a mio avviso. Penso sia stato così un po’ per tutti: prima, da ragazzino imberbe ed ingenuo, credi che l’incontro che stai vedendo sia “reale” e che lo siano i personaggi. Poi qualcuno ti spiega che in realtà c’è un copione scritto, più o meno, e l’esito imprevedibile in realtà è già stato previsto. Allora pensi che sia tutto finto e che lo siano pure i colpi e le mosse. Poi magari qualcuno ti spiega che sì, in pratica sono un po’ delle coreografie, ma che le botte arrivano e che farsi male, ma male per davvero, è anche piuttosto facile. E poi il sangue, quando c’è: un trucco oppure no? Se quindi è risaputo che i lottatori hanno il loro margine d’azione nel raggio di una trama e di regole comuni, la serie descrive Kaoru “Dump” Matsumoto come un elemento perturbante, anarchico, che deliberatamente se ne frega dei destini già scritti e dell’incolumità delle lottatrici che incontra sulla dua strada. Crea la sua gang, la Extreme Evil Alliance (strano, su Metal Archives non trovo nessuna band che ne ha preso il nome), con l’obiettivo dichiarato di schiacciare ogni volta che può (forte anche della sua stazza superiore) le Crush Gals, ovvero il duo di lottatrici più popolari del Giappone. E la serie non risparmia allora violenza, sangue, catene vere strette al collo per interminabili secondi o schiantate rovinosamente in testa ad una malcapitata avversaria (talvolta all’arbitro, persino) con volti che iniziano a ricoprirsi di sangue, urla, lacrime, pubblico disperato. Pure l’utilizzo come arma di una forchetta, che raccontata così fa un po’ ridere, visto sullo schermo ti fa passare l’ilarità. “Questo non è più wrestling”, dice qualcuno dei personaggi, e tu saresti d’accordo, dopotutto.

Ora, a questo punto, cercando di informarmi meglio sul wrestling giapponese e cercando di capire se è vero che arrivasse a quei livelli di violenza stile Uomo Tigre, trovo su YouTube praticamente tutti gli incontri che, con una certa accuratezza e persino verosimiglianza, sono stati messi in scena anche nella serie. Così scopro che è vero che le Crush Gals prima dei match avessero un siparietto tutto loro di canto e ballo per promuovere poi i loro dischi, anche se in effetti erano pure loro ben piazzate, due armadi, e non le ragazzine caruccette e mingherline della serie (interpretata da attrici e non da wrestler professioniste, mi risulta). E verifico pure che Dump Matsumoto effettivamente faceva il suo ingresso come mostrato sullo schermo, dando mazzate a destra e sinistra con quella specie di spada giapponese di legno o bambù e col face painting a metà tra i Kiss e un demone nipponico. A volte quasi conciata come un samurai. Spesso anche con simboli che ora è meglio nemmeno menzionare, sennò vieni bannato/bandito solo per questo. Il Male, insomma. A volte indossava una maglietta con scritto bene in mostra “HEAVY METAL” e questa cosa qui non può che farne la nostra beniamina. I match, come dicevo, sono stati ripresi precisamente, e chiaramente sono stati resi maggiormente televisivi. A confrontarli, mi rendo conto che quelli “veri”, dell’epoca, in realtà erano più atletici, e la stessa Matsumoto oltre alla cattiveria una certa tecnica ce l’aveva. Il dubbio che mi viene è che la violenza “vera” mostrata nella serie non sia invece più vera di quella degli incontri “veri”… E qui, secondo me, sta la cosa più fica di The Queen of Villains, una storia vera e giustamente fintissima, piena di violenza gratuita, sangue e scene perturbanti. E qualche buon sentimento. Soprattutto nel finale, che non dovete neanche perdonarglielo, che io anzi quasi mi commuovevo. Ah, dimenticavo, c’è anche un pezzo di heavy metal vero, nella sigla, cantata per davvero da Yuriyan Retriever, la giovane comedian giapponese che interpreta Kaoru.

E quindi niente, insomma, vedetevelo. E se a un certo punto vi dovesse sembrare che la violenza è quasi troppa, eccessiva per una serie Netflix, ai giorni nostri, pensate quanto si deve essere divertita la vera Kaoru a vedere sé stessa rappresentata così sullo schermo. Già, perché il sorriso della nonnina vestita di giallo che vedete nella foto promozionale qua sotto è proprio quello dell’ex nemico numero uno del Sol Levante, il Male supremo incarnato nel corpo di una singola ragazzina wrestler nei lontani anni ’80. Come si fa a non amare il Giappone. (Lorenzo Centini)

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5 commenti

  • Avatar di Gabratta

    Grandissima serie, ogni tanto Netflix ne fa una giusta…ma segnalo un fun fact a proposito di Dump Matsumoto: nel 1985 uscì un mini-LP chiamato Dump The Heel dove la nostra adesso nonnina adorabile prestava la voce. Segnalo soprattutto i due pezzi suonati dai 44magnum (Dump the Heel -citata anche nella sigla della serie- e Trouble Maker), due bombe NWOBHM che potrebbero tranquillamente essere due pezzi dei Judas Priest

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  • Avatar di Cpt. Impallo

    Giappone e wrestling è da sempre un binomio d’acciaio, sia nella realtà che nelle opere di finzione… potrei citare l’immortale Uomo Tigre, che era e resta uno dei manga migliori della storia, invece cito il meraviglioso manga Lock Up di Tetsuya Saruwatari, che oltre a condividere il nome col side project di Embury è una bellissima storia di sacrificio e lotta contro il dolore ambientato nel mondo del Puroresu amatoriale. Consigliatissimo.

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  • Avatar di marco

    è dopiatta o sub titolata?

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