Preghiamo con gioia: NICK CAVE & THE BAD SEEDS – Wild God

A Stephen Colbert è stato affidato un compito improbo: sostituire, dopo più di tre decenni, David Letterman, uno dei più grandi showman della storia della televisione. A differenza dei suoi colleghi più giovani e à-la page, come Jimmy Fallon, Jimmy Kimmel o James Corden, Colbert non sa cantare e ballare: fa ridere, ma non è un comico, e gli manca quella vena demenziale che rendeva unico Letterman. Ciò che manca a tutti i suoi colleghi è però la capacità, durante le interviste, di andare oltre il tracciato, grazie ad una sensibilità e ad una cultura che è merce rara. Ed è così che, durante una meravigliosa intervista a Nick Cave, Colbert riesce persino a sorprendere l’australiano, che stava presentando il suo nuovo album, Wild God, e il suo libro-intervista Faith, Hope and Carnage. Nick Cave, che ha perso due figli nel giro di pochi anni, stava parlando del dolore per la perdita delle persone che abbiamo amato, come un sentimento che ci unisce tutti, ad una persona, Colbert, che sa cosa significa perdere qualcuno di caro all’improvviso. Un sentimento che ha portato Cave ad elaborare il lutto con cupezza (The Skeleton Tree), a cercare la trascendenza (Ghosteen) e che lo ha portato, nonostante tutto, a trovare spazio anche per la “gioia”. Ed è lì che Colbert spiazza Cave, dicendo che se si è provato un dolore così grande, vuol dire che si è stati fortunati, perché significa che si è amato, tanto, che si è stati amati e che quindi il nostro dolore è proporzionale alla gioia di cui abbiamo potuto godere quando abbiamo avuto quella persona accanto a noi. 1.86.0-4QPODP7E6FBIMN34ZDZQYE24OI.0.1-1 È esattamente questa la chiave di Wild God, che inizialmente avrebbe dovuto chiamarsi Joy, come il terzo brano dell’album, uno dei più vicini ai due precedenti album e in cui Cave – che spesso “parla” in prima persona nell’album – dopo essersi “svegliato con la tristezza intorno alla testa, come se un mio familiare fosse morto”, viene visitato da “un fantasma”, che gli dice, letteralmente, “abbiamo avuto tutti troppo dolore, ora è il momento della gioia”. È in questo senso che deve essere vista la “gioia” di cui parla l’australiano per descrivere il suo ultimo album rispetto ai suoi predecessori: un’ulteriore elaborazione del lutto tendente verso la luce, verso la gioia che si può trovare anche nei momenti più cupi. Perché non è peccato essere grati di essere vivi. E quindi, pur non essendo del tutto assenti i toni “spettrali” dei due precedenti album (oltre alla già citata Joy, anche la meno riuscita Cinammon Horses e la splendida Conversion), Wild God è il primo album da diverso tempo in cui torna ad esserci una band che non sia solo un fantasma sullo sfondo, tornano i Bad Seeds (tra le cui fila si segnala l’ingresso di Colin Greenwood dei Radiohead) a supportare, in tutti i sensi, le composizioni ormai affidate al duo Cave-Warren Ellis. Non un lavoro facile, non un album da liquidare con pochi ascolti, senza aver approfondito i testi e aver capito la sua essenza, a volte solo sussurrata, come nella toccante Final Rescue Attempt, a volte scandita con un tono quasi biblico, come nel dittico Wild God – Frogs. Un album corale, nel senso letterale del termine, come non accadeva dai tempi del doppio Abattoir Blues/The Lyre of Orpheus. Ma, se in quel caso la coralità si esprimeva attraverso un’atmosfera che spesso sfiorava il soul e il blues, in questo caso siamo su territori più intimi, molto più intimi, in cui i brani vengono spezzati da cori effettati, come nel già citato brano omonimo in cui ricompare la Jubilee Street di qualche anno fa, o in Conversion, quando su beat sintetici inaspettati, si innesta uno splendido coro che intona touched by the spirit/touched by the flame. Una ricerca della luce che si ritrova anche nel ricordo quasi scanzonato della sua musa Anita Lane, scomparsa qualche anno fa, a cui viene dedicata la notevole Oh Wow Oh Wow (How Wonderful She Is), sulla cui coda fa capolino la voce della Lane che ricorda quanto si sono divertiti insieme. nick cave Un disco in cui Cave ritrova una maggiore classicità nelle sue composizioni (come in Long Dark Night, che non sfigurerebbe su The Boatman’s Call), senza mai essere banale e che si conclude con una ritrovata fede e speranza nel futuro nell’emozionante As the Waters Cover the Sea. Un album più “semplice” rispetto ai suoi due predecessori, più immediato, ma non per questo meno memorabile, perché stiamo parlando dell’ennesimo ottimo disco di Nick Cave. Wild God di certo non farà ricredere le “vedove” del vecchio Cave, che lo vorrebbero ancora indemoniato come fino ai primi ’90, immutabile alla vita e a tutto ciò che comporta invecchiare. Come se tutti noi fossimo immuni al passare del tempo. (L’Azzeccagarbugli)

Un commento

  • Avatar di nxero

    Personalmente sono una di quelle vedove. Comprendo il percorso intraprso da Cave, i lutti che lo hanno inevitabilmente segnato e anche la necessità di esplorare nuove cose. Solo che non sopporto i pipponi che fa adesso. Prendi il brano “Joy”… non arrivo alla fine, troppe menate. So che è un problema mio, la qualità resta comunque alta, però, secondo me i bad seeds sono diventati l’ombra di loro stessi e sembra quasi che Cave faccia dei brani nuovi per predicare piuttosto che per cantare e suonare. Non lo vorrei immutabile, solo che questa mutazione mi annoia e mi sembra che lui abbia perso il divertimento che si prova a suonare a favore di una supposta maturità artistica che però a tratti sconfina nel retorico e nel tronfio.
    La dico con Lemmy: “Se pensi di essere troppo vecchio per il rock’n’roll, allora lo sei”, “non piangere nella birra. Bevila.”

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