Avere vent’anni: CHAIN – Chain.exe
Il 2004 fu proprio un grande anno per la musica metal. Passando in rassegna, per questa rubrica, le uscite di vent’anni fa, mi sono stupito della qualità dei dischi commercializzati allora, tanto da band più blasonate quanto da realtà più piccole e nascoste ma comunque di grande valore. Alla seconda categoria appartengono appunto i Chain. Il disco che mi accingo a recensire su YouTube e Spotify non c’è. Su Quobuz si, e in alta definizione. Ma chi ha, a parte noi malati di musica, un account di Quobuz?
Comunque: i Chain sono una delle tante creature del polistrumentista Henning Pauly. Costui era all’epoca mi era già noto per un ottimo lavoro con i Frameshift (Unweaving the Rainbow) e con i Chain aveva già pubblicato un più che decente disco d’esordio (Reconstruct).Chain.exe è quindi il secondo, e sino ad oggi ultimo, disco della band, un vero e proprio canto del cigno. Un vero peccato perché il disco, c’è da dire, è invecchiato benissimo, nonostante la cover art veramente pietosa. Pauly non è sparito, anzi è piuttosto attivo come YouTuber, ma a quanto mi risulta non ha più scritto e prodotto musica sua, men che meno sotto il moniker Chain. Di fatto, della band esiste solamente una “foto collettiva” (cfr. più in basso) prima dell’eclisse totale, dell’evaporazione, della scissione atomica. Mi è anche difficile includere immagini in questa recensione, tanto evanescente è (stata) questa entità.
Chain.exe, pubblicato con la Progrock Records, è un progetto ambizioso e una prova in studio decisamente affascinante. Prodotto del Progressive metal di scuola americana, ci presenta i Chain in forma smagliante destreggiarsi tra dinamiche apparentemente semplici ma complesse, melodie azzeccate e sfumature musicali molto variegate che incorporano, tra le altre cose, nuances etniche, strutture jazzistiche ed occasionali suoni elettronici. La perizia musicale con cui i pezzi vengono suonati è ineccepibile, e riflette bene non solamente la maestria di ogni singolo membro della band, ma anche l’abilità nel creare grooves collettivi efficacissimi. In fin dei conti parliamo sempre di gente che aveva già suonato, tra gli altri, anche con Frank Zappa. Matt Cash, il cantante, offre una prova convincente, e le tantissime voci ospiti aggiungono gradazioni distinte e peculiari alle parti vocali. Le due cantanti sono particolarmente brave, così come il sassofonista. Le parti con le voci “a cappella” ricordano i meravigliosi passaggi degli Spock’s Beard di quel clamoroso disco che è Snow (2002).
È un lavoro piuttosto lungo. Stiamo parlando di un’ora e venti di musica. I primi (quasi) quaranta minuti di musica consistono in una lunga suite, Cities, divisa in sette parti. È evidente che è proprio questo il nucleo del disco, un pezzo meraviglioso che si dipana in una miscela di melodie alle volte semplici alle volte intricate, che si evolvono per trasmettere la mutabilità degli stati d’animo, facendolo in modo non raffazzonato ma ben congegnato. Tutto suona molto naturale, compresi i passaggi più arditi dalle parti più energiche a quelle più d’ambiente. Come da tradizione, spesso i motivi musicali portanti del pezzo verranno riproposti più volte, cambiandone però tempi e suoni. Il chitarrista e il tastierista, in Cities, dimostrano la loro flessibilità quando passano dalle parti heavy prog a quelle atmosferiche in modo naturalissimo, dimostrando non solamente di comprendere bene come utilizzare le loro abilità tecniche ma anche di saperle mettere al servizio degli stati d’animo che ogni parte del brano vuole comunicare. Eddie Marvin, il batterista, offre una performance energica e solida, la spina dorsale adeguata della complessa musica dei Chain. Il tutto al servizio di un songwriting ispiratissimo.
I restanti quaranta minuti sono coperti da quattro pezzi originali e una cover dei Saga (Hot to Cold), scelta, questa, interessante, ma non completamente azzeccata perché la cover è quasi una esecuzione verbatim del pezzo originale. Ora, lo stile dei Saga non è per niente simile a quello dei Chain e quindi questa scelta rompe un po’ la coesione generale del disco. Per quanto riguarda invece i restanti pezzi, alcuni anche piuttosto lunghi, si segnalano per una musica assolutamente in linea con Cities, sebbene non riescano a raggiungere nuovamente lo stesso livello di coesione musicale espresso invece in modo ottimale nella lunga suite.
Never Leave the Past Behind e Eama Hut non sono brutti pezzi, tutt’altro. A tratti presentano parti solidissime e intriganti, ma la brillantezza di Cities finisce per oscurare inevitabilmente qualsiasi cosa che le sia anche infinitesimamente inferiore. She Looks Like You è un singolone da radio, e in quanto tale è il meno “prog” dell’intero platter, pur mantenendo melodie decisamente rockettare/grunge.
Last Chance to See, ultimo pezzo del disco, riporta decisamente in linea la proposta dei Chain. È un brano piuttosto eclettico, centrato soprattutto sulle voci. Sfrutta appieno le potenzialità di tutti gli ospiti e, rimanendo in tema, mi ricorda parecchio l’approccio di Ayreon, specialmente a partire da The Human Equation. Se escludiamo Cities, che gioca in una categoria a parte, questo è sicuramente il pezzo più bello dell’intero disco.
Sebbene si tratti di un disco fondamentalmente progressive rock/metal, penso che Chain.exe potrebbe venir apprezzato anche da chi non è esattamente un fan del genere. Al di là delle etichette, è un disco molto bello. Chiunque abbia un po’ di orecchio musicale non faticherà infatti a riconoscerne gli sprazzi di vera ispirazione. L’ascoltatore che invece è attratto dal lato più sperimentale troverà molto da ammirare, anche se l’album nel suo complesso non riesce del tutto a raggiungere le vette elevate che a tratti suggerisce. C’è da dire, comunque, che la sola suite Cities vale completamente il prezzo del biglietto. (Bartolo da Sassoferrato)



