Sabbia nelle mutande: rassegna balneare di stoner e affini
HUNTSMEN – The Dry Land
Una ballerina con la testa che prende fuoco e che balla su un palco divorato dalle fiamme. che cosa vuole significare la copertina del terzo Lp degli Huntsmen? Non ne ho idea, ma The Dry Land è probabilmente il disco più feroce tra quelli qui recensiti, e si apre con un brano che funge da biglietto di presentazione per l’intero lavoro. This, Our Gospel è una cavalcata sludge che poi incede in un verso corale dalle indubbie proprietà ipnotiche. I pezzi guadagnano molto dall’alternanza, per niente pacchiana, di voci maschili e femminili, in cui clean e growl si mischiano al fine di ottenere una sensazione di innegabile grandeur. A tre minuti tutto si placa, e lascia spazio a un interludio di basso, batteria e chitarra lento, a basso volume, cupo. Una figata assoluta, specialmente quando le voci soavi dei due cantanti intervengono per amplificarne l’effetto.

Nel terzo disco gli Huntsmen hanno decisamente trovato la quadra per proporre della grande musica. A differenza dei dischi precedenti, mi sembra che le sollecitazioni del southern rock siano molto più presenti. Pezzi migliori: tutto il disco è una gran prova in studio.
MOON WOMB – Moon Womb
Quando ho visto la copertina del primo disco di questo duo del North Carolina ho pensato immediatamente al secondo disco degli Eagle Twin (The Feather Tipped the Serpent’s Scale) che, tra le altre cose, è bello cazzuto. L’omonima prima prova in studio dei Moon Womb, comunque, non c’entra proprio niente con gli Eagle Twin, e la copertina in effetti potrebbe trarre in inganno. Che la loro musica sia imparentata con lo stoner rock, con la psichedelia, e con l’heavy metal è immediatamente percepibile al risuonare delle prime note. Ma, ad ogni modo, più che pesante, la proposta è qui ipnotica, caratteristica che si deve tanto alla lentezza quasi ritualistica dei pezzi quanto alla voce ammaliante della cantante/batterista.

Un disco interessante, anche se un po’ troppo ripetitivo per i miei gusti. The Principle of Polarity svetta su tutti gli altri pezzi proprio perché riesce a essere, in qualche modo, diverso dal resto del lotto. Nel loro bandcamp, tra i tag, leggo “dark jazz”. Non ho sentito niente di jazz in questo disco. Se poi per “jazz” si intende “note suonate con degli strumenti o con la voce” ok, allora c’è anche il dark jazz. Pezzi migliori: Senescence, The Principle of Polarity.
SONS OF ARRAKIS – Volume II
Dopo il Volume I, i Sons of Arrakis tornano con il secondo disco mantenendo la formula dell’esordio. Niente di più, niente di meno. Punto di forza ma, allo stesso tempo, grandissima debolezza di un disco che gioca interamente su formule sentite e risentite. I pezzi suonano tutti tremendamente simili, tant’è che ho faticato a distinguerli mentre me lo ascoltavo con il mio DAP. Mi dispiace, visto che sono un sucker di Frank Herbert e del suo capolavoro sin da quando lessi Dune la prima volta, nel 1998. Certo la “bilogia” dei recenti film di Villeneuve mi ha riconfermato (non ne sentivo il bisogno) che l’abito non fa il monaco e quindi… in questo disco di Arrakis non si sente nemmeno una lontana eco.

Un blues/rock non particolarmente “ciccione”, non particolarmente “fuzz”, nel mezzo del quale, di tanto in tanto, i Sons of Arrakis fanno vedere quello di cui sarebbero capaci, con dei riff veramente belli (in Interlude I, Blood for Blood e Burn into Blaze, per esempio) ma tutto sommato sommersi in un mare di piattume. Caladan è un gran pezzo di chiusura. Ma dura un minuto e mezzo: troppo poco, troppo nel fondo. Peccato, perché il primo disco, decisamente migliore, pensavo fosse una solida base di partenza per rifinire la formula ma anche per osare di più nelle successive pubblicazioni. Forse, si tratta solo di raggruppare meglio le idee per un terzo, più centrato, lavoro: il potenziale c’è. Pezzi migliori: Interlude I, Burn into Blaze, Caladan.
STILL WAVE – A Broken Heart Makes an Inner Constellation
Questo è un novello quintetto romano che propone una musica dalle molteplici influenze, tutte prevalentemente derivate da gruppi come Paradise Lost, My Dying Bride, Katatonia (ultimo periodo), Sentenced e Insomnium, con qualche spruzzatina di black metal melodico di qua e di là. Le parti in growl sono decisamente minoritarie, a favore del cantato pulito. Il lettore avrà già quindi capito, da titolo e ispirazioni musicali, che il mood del disco si gioca tra melancolia romantica e epica energia in mid-tempo.

Non è un disco brutto, i musicisti sono affiatati e competenti. Il cantante fa un ottimo lavoro. La presenza di alcune parti, ragionate, in puro stile shoegaze (11, Starwound) sono azzeccate. Ma non è la mia tazza di tè, come si dice: ho trovato la musica un po’ troppo “piaciona” per i miei gusti. Troppo limone, troppo pop. Pezzi migliori: Spaceman e Ghost of a Song. (Bartolo da Sassoferrato)

meglio il primo dei Sons of Arrakis ma dai, questo è buono
"Mi piace""Mi piace"
Ormai, al di là delle band di poser o delle trovate commerciali, ci sono pochissimi dischi che fanno VERAMENTE cagare. Quindi, in linea teorica, sono tutti “buoni” dischi. Ma diciamo che Vol. II dei SoA, ascoltato tre volte per la recensione, non tornerà nel mio stereo probabilmente mai più.
"Mi piace""Mi piace"
ok, ci sta. Il primo si ascolta ancora volentieri
"Mi piace""Mi piace"
Oggi produrre un disco ha costi accessibilissimi e gente preparata ce n’è tanta, il problema è che molti dischi moderni sono inutili. Si cerca di spremere quel poco mercato rimasto nel metal.
"Mi piace""Mi piace"