Big Swimmer dei KING HANNAH è un ottimo disco da macchina per l’estate

Il peso delle aspettative e la grande attenzione di un certo tipo di stampa generano spesso una comprensibile tensione in determinati artisti. Come sarà sicuramente capitato ai King Hannah, duo di Liverpool che due anni fa è finito nelle top di fine anno di mezzo mondo con il buon I’m not Sorry, I Was Just Me, una rilettura in salsa indie della scena bristoliana, un concentrato di anni ’90 che faceva la spola tra le due sponde dell’oceano, tra Gran Bretagna e Stati Uniti. Un lavoro assolutamente riuscito, che però non mi aveva del tutto conquistato, nonostante l’hype che si era creato e che ha accompagnato l’uscita di questo secondo, spiazzante, lavoro. Perché i King Hannah di Big Swimmer mettono in chiaro sin dallo splendido incipit del brano omonimo che le cose saranno diverse e che le coordinate geografiche saranno totalmente incentrate su sonorità figlie dell’altra sponda dell’atlantico.

King-Hannah-Big-Swimmer

Un viaggio incredibilmente personale, nel tempo e nello spazio, all’interno degli Stati Uniti e, al tempo stesso, un disco che induce a viaggiare, sia nella mente, che concretamente, essendo un’ottima colonna sonora per lunghi viaggi in macchina con il sole che ti brucia la pelle, mentre torni ancora con il sapore di salsedine sulle labbra e non ti importa neanche di restare incolonnato in macchina, perché ti sta bene così. Di echi “bristoliani” non c’è quasi nulla, se si eccettua il blues portisheadiano di The Mattress, mentre il resto dell’album è uno zibaldone del meglio di un certo indie americano anni ’90 – che in molti momenti non teme di andare indietro nel tempo – ma filtrato attraverso uno sguardo che resta inglese. E il risultato è davvero incantevole.

Perché di incanto si può parlare davanti a una deliziosa New York, Let’s Do Nothing, che sembra quasi una versione pop dei Sonic Youth (più pop), che fa il paio con un ottimo potenziale singolo come Davey Says, che in altri anni avrebbe spopolato sulle radio indipendenti. E che dire della ballata desertica di Suddenly, Your Hand e del suo devastante testo – per chi scrive il miglior brano dell’album e tra i migliori del 2024 – con la sua lunga coda chitarristica che sembra uscire da Zuma di Neil Young, o del successivo oscuro viaggio del nulla di alcune aree del Texas di Somewhere Near El Paso, con le sue chitarre ruvide e un semi spoken words da applausi.

King Hannah

Non è da tutti pubblicare un dittico di tale portata, cuore pulsante di un album che vive di tante anime, denota una grandissima maturità e al tempo stesso coesione nell’approccio e nella scelta dei suoni. Perché indipendentemente dal genere proposto, che può essere sia la “seattleiana” Lily Pad, o la classicità acustica di John Prime On The Radio (gran titolo, tra l’altro), si sente che c’è una scelta ben precisa sulla produzione e sui suoni, estremamente ragionata e riuscita che, molto più che in passato, mette in risalto le chitarre.

E il duo di Liverpool eccelle in ogni ambito, dimostrandosi coeso, coraggioso e perfettamente a suo agio a viaggiare tra i generi e nel tempo, senza mai sembrare macchiettistico e a farvi viaggiare sia quando siete a lavoro davanti a un pc e sono le nove di sera e vi affacciate speranzosi dalla vostra stanza/postazione/ufficioso, sia quando cercate parcheggio nel traffico romano, sia quando, finalmente, siete in viaggio verso mete più serene, sorridete alla persona che avete accanto e siete pronti a macinare anche chilometri. Senza dubbio tra i dischi dell’anno. (L’Azzeccagarbugli)

 

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