John Cale – POPtical Illusions
Superare un album come Mercy non era fattibile, nonostante le composizione di questo POPtical Illusion vengano dalle stesse session. Perché, a quanto pare, il nostro buon ottantaduenne ha scritto oltre ottanta canzoni durante il 2020, in occasione del lockdown e ha deciso di partire da questi brani, magari solo abbozzati, per i suoi prossimi lavori, conferendo loro un mood diverso, un’anima diversa. E, come eloquentemente anticipato dal titolo della sua nuova fatica, questa volta John Cale si è spostato su territori più “pop”. Ovviamente non stiamo parlando di un pop da classifica, bensì di un lavoro vicino ad alcuni lavori più melodici di Brian Eno, oppure ad alcune incursioni nel genere di David Byrne e, ovviamente, ad alcuni dei lavori della sua lunga discografia.
Fatto sta che, ad un primo acchito, di fronte a brani – apparentemente – solari come Davies and Wales, o How We See The Light, si rimane spiazzati di fronte a un approccio tanto diverso rispetto al suo predecessore e si ha la sensazione di trovarsi di fronte ad un album sì godibile, sì elegante, ma privo di quella profondità che connotano i lavori più ispirati del cofondatore dei Velvet Underground. Questa sensazione di iniziale spaesamento, però, svanisce quasi subito quando si percepisce che dietro questa semplicità, dietro quella luce che illumina i chiaroscuri che caratterizzavano un album come Mercy, si cela una grande complessità. Perché, come suggerisce sempre il titolo dell’album, le sonorità saranno più dirette, ma la semplicità è soltanto un’illusione, un’opera di magia.
Ed è un qualcosa che si inizia a percepire a partire da uno – splendido – brano quale Edge of Reason, costruito su un loop ritmico quasi trip-hop sul quale si erge la voce effettata di Cale – che, per la cronaca, suona quasi tutti gli strumenti sul disco – e da cui partono dei delicati synth che creano un vero e proprio gioiello pop. Un brano che sa di speranza, soprattutto nel tempo, e che è connotato da una grande malinconia. Per quanto mi riguarda, è questa la chiave di volta dell’album che consente di decifrare meglio l’apparente placidità di un pezzo come l’iniziale God Made me Do it, o l’acido blues elettrico del primo “singolo” Shark-Skark, pezzo rabbioso che diventa quasi il contraltare della leggerezza – anche qui illusoria – della bellissima I’m Angry.
Un disco che vive di contrasti, di accostamenti di concetti in parallelo, di spazi illuminati a giorno che in realtà nascondono zone di un’oscurità impenetrabile. Un disco incredibilmente complesso nella sua ontologica semplicità.
Più si va avanti, più si concede tempo all’opera di Cale, più emergono i suoi punti di forza, quasi inattesi, come nel sentito dittico finale formato da Laughing in My Sleep e dalla commovente There Will Be No River. Oppure quando si iniziano ad esaminare i testi, come sempre mai banali, e un brano come la già menzionata Davies and Wales assume tutto un altro significato, di inedita propensione verso il futuro, anche ad ottantadue anni, perché se hai fatto delle cose che vorresti non aver fatto, pensa a quello che farai stasera, perché sei una persona diversa da quella che eri ieri.
All’ennesimo ascolto di un disco – nuovamente – baciato da una produzione a dir poco perfetta, non si può che restare ancora una volta incantati di fronte ad un artista che non ha più nulla da dimostrare, ma che non si accontenta di riposare sugli allori, o di seguire terreni già battuti. E se POPtical Illusion non sarà un nuovo Time Out of Mind, resta, comunque, meritatamente, un nuovo Tempest. Riuscire a sorprendere ancora a quell’età e dopo una carriera del genere, riuscendo a suonare più fresco di tanta gente che dovrebbe bruciare di vita, non è impresa da poco. (L’Azzeccagarbugli)
Ed è un qualcosa che si inizia a percepire a partire da uno – splendido – brano quale Edge of Reason, costruito su un loop ritmico quasi trip-hop sul quale si erge la voce effettata di Cale – che, per la cronaca, suona quasi tutti gli strumenti sul disco – e da cui partono dei delicati synth che creano un vero e proprio gioiello pop. Un brano che sa di speranza, soprattutto nel tempo, e che è connotato da una grande malinconia. Per quanto mi riguarda, è questa la chiave di volta dell’album che consente di decifrare meglio l’apparente placidità di un pezzo come l’iniziale God Made me Do it, o l’acido blues elettrico del primo “singolo” Shark-Skark, pezzo rabbioso che diventa quasi il contraltare della leggerezza – anche qui illusoria – della bellissima I’m Angry.
Un disco che vive di contrasti, di accostamenti di concetti in parallelo, di spazi illuminati a giorno che in realtà nascondono zone di un’oscurità impenetrabile. Un disco incredibilmente complesso nella sua ontologica semplicità.
Più si va avanti, più si concede tempo all’opera di Cale, più emergono i suoi punti di forza, quasi inattesi, come nel sentito dittico finale formato da Laughing in My Sleep e dalla commovente There Will Be No River. Oppure quando si iniziano ad esaminare i testi, come sempre mai banali, e un brano come la già menzionata Davies and Wales assume tutto un altro significato, di inedita propensione verso il futuro, anche ad ottantadue anni, perché se hai fatto delle cose che vorresti non aver fatto, pensa a quello che farai stasera, perché sei una persona diversa da quella che eri ieri.
All’ennesimo ascolto di un disco – nuovamente – baciato da una produzione a dir poco perfetta, non si può che restare ancora una volta incantati di fronte ad un artista che non ha più nulla da dimostrare, ma che non si accontenta di riposare sugli allori, o di seguire terreni già battuti. E se POPtical Illusion non sarà un nuovo Time Out of Mind, resta, comunque, meritatamente, un nuovo Tempest. Riuscire a sorprendere ancora a quell’età e dopo una carriera del genere, riuscendo a suonare più fresco di tanta gente che dovrebbe bruciare di vita, non è impresa da poco. (L’Azzeccagarbugli)
