Doom con gli occhiali: FLESH OF THE STARS – The Glass Garden

“Da dove cavolo sbucano questi?”. Questo è stato il primo pensiero quando mi sono proposto di ascoltare l’ultimo lavoro dei Flesh of the Stars, The Glass Garden. Il quartetto di Chicago non è infatti molto conosciuto, ma è riuscito a sfornare ben cinque album e un EP che, al netto di una carriera che non raggiunge nemmeno dieci anni, non è proprio poco. Certo, quantità non è sinonimo di qualità, e quindi cerchiamo di vedere qual è la loro proposta musicale. Per poco The Glass Garden non finiva nella mia Top Ten 2023, e qualcosa ne sanno i miei sodali della redazione di Metal Skunk, e specialmente l’Azzeccagarbugli, ai quali ho smerigliato i testicoli tentando di fargli ascoltare questo lavoro.

Il mio entusiasmo iniziale rispetto alla musica dei Flesh of the Stars, dopo un po’, non dico si sia spento, ma certo ha subito un ridimensionamento. Per riuscire a inquadrare meglio The Glass Garden, a cui ho dedicato almeno quattro-cinque ascolti completi, ho rivisitato tutta la discografia della band, cosa che ha richiesto del tempo. La presente recensione considera quindi il disco come ultimo tassello di un percorso lungo e articolato che, da un lato, testimonia la capacità dei Flesh of the Stars di rendere la loro proposta musicale consistente ma, dall’altro, indica come su certi aspetti della loro musica ci sia ancora da lavorare.

Partiamo con il dire che lo stile musicale dei Flesh of the Stars è di difficile definizione. Già questo lo considero un pro perché, a conti fatti, significa che riescono a mescolare le loro molteplici influenze musicali in una proposta coerente e coordinata, dove la quantità e la qualità degli spunti vanno mano nella mano. Troviamo strutture armoniche doom metal, e quindi brani costruiti a partire da poderosi accordi di chitarra, ma anche una libertà melodica di spessore, espressa attraverso le parti strumentali e vocali, e accelerazioni che non sono esattamente nel DNA del doom. La scelta dei suoni, peraltro, è più vicina al rock più pesante e non si allinea ai paradigmi propriamente metal, tant’è che anche le linee vocali sono cantate praticamente solo in pulito. Nonostante ciò la musica dei Flesh of the Stars è capace di essere granitica, compatta, ed è sufficiente ascoltare Terraforms per rendersene conto. Il primo pezzo è infatti un brano roccioso, con un tiro pazzesco e trascinato dal geniale lavoro del batterista che costruisce un groove di altissimo livello, spogliato di qualsiasi velleità. Grande tecnicismo, in realtà, ma mascherato di apparente semplicità.

Le transizioni dalle sezioni più energiche della musica dei Flesh of the Stars a quelle più pacate, alle volte vere e proprie chicche minimaliste all’interno delle composizioni, avvengono con una naturalezza invidiabile, segno di una peculiare cura in fase di songwriting e di una attenzione maniacale ai dettagli. Into the Maze e After the Dream danno riprova di quanto detto sinora e, almeno secondo chi scrive, sono i pezzi più riusciti dell’intero disco. Due brani ben concepiti a partire dalla loro struttura, con trovate sonore che rasentano la migliore tradizione post-rock e shoegaze ma intercalate a sezioni di riffing semplici ma non scontati, serrati, che contribuiscono ad arricchire la tavolozza di emozioni che i Flesh of the Stars sembrano maneggiare con assoluta scioltezza. In questo senso, l’evoluzione della band è lampante: i dischi precedenti, sebbene interessanti, “peccavano” non tanto di eccessiva prolissità quanto proprio di poca coesione tra i distinti momenti musicali.

In The Glass Garden lo scopo della band era dipingere, tramite l’avvicendamento delle distinte fasi dei vari brani, uno stato di latente malinconia, compito pienamente raggiunto grazie alla complicità della progressione degli accordi delle canzoni e della presenza di tocchi di classe azzeccati, come le note accennate alla lap steel guitar che, come da manuale, emergono “al posto giusto nel momento giusto”.

Unseen chiude in bellezza con una lunghissima intro che alterna strumming e fingerpicking. I primi cinque minuti iniziali si svolgono con toni sommessi, la voce, singola o corale, è soffusa, dolce, quasi impercettibile. Ma successivamente la canzone si addentra bruscamente in territori decisamente più movimentati, dove una iniziale tempesta elettrica, scandita da lunghi accordi, lascia poi il posto a una vera e propria cavalcata in mid-tempo (poco doom in realtà, ma con una capacità di pompare fomento oltremodo ragguardevole) divisa in due parti, e quindi con due strutture ritmiche distinte. Raffrontando il songwriting di questo pezzo con la restante produzione dei Flesh of the Stars, emerge nuovamente come la band abbia subito una decisa maturazione, perché è molto più accentuata una distinta e solida consapevolezza nella costruzione del brano.

Perché questo disco, che ho apprezzato e continuo ad apprezzare, alla fine non è finito della mia Top Ten 2023? Due aspetti, in particolare, non sono migliorati nel corso della quasi decennale carriera della band: il missaggio e la produzione di The Glass Garden sono infatti in linea con la precedente discografia dei Flesh of the Stars, e sono gli elementi meno convincenti dell’intero disco. Da un lato si potrebbe apprezzare la buona intenzione di Matt Ciani (principale compositore e chitarrista della band) di curare ogni aspetto musicale del disco, mentre dall’altro bisognerebbe chiedersi quanto questa buona intenzione dia i suoi frutti. Ascoltando The Glass Garden infatti ho avuto sempre la spiacevole sensazione di avere ovatta nelle orecchie. I suoni hanno un che di fangoso, e, sebbene questa caratteristica – già preminente nei precedenti dischi – sia quasi impercettibile nelle sezioni più melodiche (che spesso vengono guidate da un singolo, preponderante, strumento accompagnato dalla voce), nei momenti più rocciosamente catartici ammazza la dinamica dei suoni, e trasforma tutto in un blocco di rumore sgradevolmente indistinto e “piatto”, nel quale ogni strumento non riesce a esprimersi con la dovuta efficacia. In questo senso, bisogna lavorare ancora molto.

Ciononostante, The Glass Garden è un disco solidissimo e i Flesh of the Stars sono riusciti a trovare la quadra per imporre alla loro proposta musicale una cifra stilistica di sicuro impatto. La fantasia e la capacità artistica della band riescono a proporre un genere non di facile assimilazione ma che riesce, se apprezzato, a distinguersi notevolmente dalla massa. (Bartolo da Sassoferrato)

Un commento

  • Avatar di Federico

    Interessantissimi!!
    Terraforms da sola è talmente interessante e bella che vale il costo del biglietto.
    Confermo i dubbi su suoni e mix, troppo impastato e suoni forse un po’ troppo stoner per apprezzare realmente il carico di melodie che propongono. La voce è addirittura un po’ indietro e si sente a malapena in certi momenti, quando invece dovrebbe essere centrale.
    Però era parecchio che non sentivo una proposta così vivace in termini di inventiva e idee.
    Bellissima scoperta

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